La Memoria della cenere: il tempo della distanza
🇫🇷 • La memoria della cenere, Chiara Marchelli
Editore NN
03/2025
La memoria della cenere è uno romanzo del 2019. Sono andata a verificarlo perché tra le sue pagine ho trovato qualcosa che istintivamente ci è (diventato) molto famigliare: l’intimità forzata da una situazione di emergenza, la tensione centripeta – barricarsi, chiudere le fessure, difendersi – che costringe a una impossibile tregua con quella centrifuga – gli irrisolti famigliari, l’allocazione della colpa, il mutare degli equilibri. L’avremmo conosciuta più o meno tutti un anno dopo, e avevo quasi l’idea che Marchelli si fosse ispirata a questa dinamica per covare la sua esplosione sottocutanea.
E invece no, anche se il biennio 2020-2021 dà a ciascuno di noi (anche a chi non si è mai trovato in mezzo a un’eruzione vulcanica) gli strumenti per sentirsi visto nelle parole di Chiara Marchelli. Una particolare rifrazione del tempo, la sua sovrapposizione con la memoria, la tensione trattenuta data da una cautela a fior di pelle. Perché le esplosioni che ribollono sotto la superficie hanno qualcosa di comune: ci spingono a essere prudenti, a muoverci per tentativi, a rallentare e ponderare. Ci spingono a considerare il rischio, a pesare le possibilità, a ragionare in termini di peggior scenario: lasciare tutto e scappare. Salvare il salvabile. Cosa prendere e cosa lasciare.
L’aneurisma di Elena, che costituisce la prima di queste esplosioni e l’antefatto del romanzo, condivide con l’eruzione del Puy de Lug tutte queste dinamiche, tracciando un filo rosso che attraversa l’oceano: da New York a un paesino nella Francia più remota e rurale (a tratti potrebbe ricordare un romanzo di Simenon), ma sempre lontano da casa. L’allontanamento di Elena si radica in un’innata propensione al distacco, crea una spaccatura tra lei e i genitori, di cui Marchelli mostra tutta la trattenuta sofferenza. Diventare adulti significa inevitabilmente assistere a un capovolgimento dei rapporti di forza e di dipendenza rispetto alle proprie famiglie d’origine, un capovolgimento di volta in volta più o meno rumoroso, che si popola inevitabilmente di mancanze, di ansie e di scollamenti, di lutti e di riletture del proprio vissuto, ancor di più quando questo processo avviene a distanza – una distanza che, per un genitore, è sempre transoceanica, incomprensibile e insormontabile.
Prendere le distanze geograficamente non è mai solo una scelta dovuta alle contingenze, si radica nel bisogno di affermarsi, a volte di rompere, a volte anche solo di rivendicare per sé uno spazio di esistenza diverso e separato, la necessità di un ripensamento di sé. Un tentativo. Spalancare la porta a un destino diverso. Riscrivere un’idea di famiglia.
La maestria di Marchelli sta nel far avvertire al lettore quanto il processo sia doloroso e contraddittorio, nel suo trasformarsi a volte in una guerriglia senza vincitori né vinti, un po’ franzeniana nei temi, più delicata nei toni. La memoria della cenere è un romanzo sensoriale, della concretezza di chi si riabitua al rumore e alla luce, al profumo, al gusto del vino, a mangiare con cautela – come tutte le volte in cui si parla di famiglia si finisce inevitabilmente intorno a un tavolo, per mangiare o per cucinare, prendersi cura di, nutrire: il primo e il più intimo dei contatti tra un genitore e un figlio, il più carico di un senso di debito e di accudimento, una presa di posizione e un altro modo per definirsi.
A essere riplasmato non è solo lo spazio, ma lo è anche il tempo, insieme a quella sua particolare distorsione che è la memoria. L’aneurisma offre in questo caso un pretesto per riflettere sulla differente lunghezza d’onda di ciò che ci abita dentro: la memoria che definisce chi siamo stati sin qui, il bagaglio famigliare delle nostre estati al mare e delle nostre domeniche malinconiche, dei funerali dei nonni e delle teste sul banco a scuola. La memoria a breve, fatta di tutte le incombenze che costellano di inciampi la nostra quotidianità e che plasma, nel modo in cui ci destreggiamo in equilibrio fino a fine giornata, il nostro modo di essere.
Parallelamente, proiettando lo sguardo fuori da sé, c'è un tempo verticale: è il tempo della memoria a lungo termine, il tempo della costruzione del sé, il tempo delle cose sepolte, delle memorie muscolari e sensoriali. C'è un tempo orizzontale: è quello dei progetti e delle prospettive, delle cose — cuori oltre l'ostacolo, passi di corsa uno dopo l'altro — che si protendono in avanti, è il tempo in cui la memoria futura si costruisce.
È il tempo che, quando si ferma, si fa invadere dagli irrisolti del suo alter ego verticale: diventa attesa guardinga, resistenza, esilio. Si fa muro e mostra le crepe, chiede di stare e non di scappare, non si fa aggirare. È un tempo senza geometria, è la banalità della vita: treni da prendere, voli cancellati, vino di troppo e parole maligne. Affrontare gli irrisolti. E per Elena, che da una vita si difende con la distanza — la scrittura, la corsa, un oceano — fermarsi è spaventoso: la mette per forza di cose davanti alla necessità di decostruirsi per ricostruirsi, di reimparare, di uscire allo scoperto e far propria la cenere.
Un romanzo sui moti tellurici delle famiglie e dei trasmissori nervosi e anche su quelli del tempo, inafferrabili e bifronti: Chiara Marchelli anche qui è eccezionale, fine e implacabile e sempre pacata, chirurgica e inafferrabile.
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