Intermezzo: i sad boys di Sally Rooney
🇮🇪 • Intermezzo, Sally Rooney
Editore Einaudi — traduzione di Norman Gobetti
12/2024
Tre libri e mezzo di scetticismo su Sally Rooney. Tre libri e mezzo e ti verrebbe anche da dire ma molla, non fa per te, cosa ti ostini. Però c'è qualcosa. Sotto le frasi asciuttissime di Persone Normali, i personaggi dall'indifferente all'odioso di Parlarne tra amici (ma amici chi?). Qualcosa c'è, fosse anche solo l'Irlanda meno patinata, quella più umida, realistica. Ed eccomi qui a leggere Intermezzo come più o meno tre quarti di mondo e a fare pure fatica a parlarne.
Ho sottolineato tantissimo, durante la lettura. Sottolineato aggiungendo pochissime parole, quasi tutte con il punto di domanda alla fine. Non ho divorato il libro, quindi non è per una questione di tempo che mi sento come se mi sfuggisse qualcosa. Ci ho messo tanto, avevo come la sensazione che fosse potenzialmente assuefacente. Dilagante. Elusivo. Sensazioni che si spandono dense come olio sulla pagina e poi ristagnano. Risacca della sintassi e della punteggiatura. Se avessi letto Joyce probabilmente ne saprei di più, ma sono pur sempre solo io, con tutte le mie lacune nei classici, e questo è quindi solo un tentativo di razionalizzare una lieta sorpresa letteraria.
Dal punto di vista estetico, per la prima volta leggendo Rooney ho trovato una scrittura che mi ha conquistata. Colta, espressionista, raffinata – un quadro di Munch. Repentinità e irrevocabilità delle sere di novembre. Fredda buia mezzanotte alle sei del pomeriggio. (...) Rumorosa e disorientante la città , un illeggibile alfabeto straniero composto da luci e facce. Ho trovato personaggi più profondi che mai, con cui empatizzare. Le tematiche – be', quelle non sono mai mancate. Però lo dice Rooney stessa, tendiamo a individuare delle strutture non ci sono, con la grammatica ci interpretiamo la realtà , ce la costruiamo, addirittura, soprattutto quando ci fa sentire sopraffatti, soprattutto quando cercare di metterla in ordine, di visualizzare una sequenza di azioni in anticipo ci aiuta a non impazzire. Quindi sì, la grammatica conta, contano le parole, – un irrazionale attaccamento al significato, che finisce per conficcartisi dentro – sfuggenti e traslucide come sensazioni.
Mi sarebbe piaciuto affondassero di più, invece di rimanere lì, vischiose e insidiosamente paratattiche – senza scottarsi le dita– ma probabilmente dopo quattro libri che continuo lo stesso a tornare potrei anche concederle il beneficio del dubbio, e a livello di poetica intuisco che ha qualcosa di coerente, di perfetto. Non abbiamo alcun potere sulle cose che ci arrivano né sul modo in cui ci arrivano, quindi perché pretendere che lo facciano? Il più delle volte ti finiscono addosso senza che tu abbia il tempo di rendertene conto, se sei fortunato appena abbastanza per parare il colpo, ed elaborarle è un lusso per pochi. Poi magari con il tempo riesci persino a sviluppare una strategia, o almeno una sorta di coma farmacologico in cui non farti raggiungere, perché i sentimenti, lasciati liberi a se stessi, sono ineluttabili, la stessa sensazione di quando perdi sangue dal naso. Incontrollabili. Se così non fosse, non avremmo bisogno di assicurazioni – ridicole, quasi delle preghiere infantili – contro i rimorsi.
Intermezzo è la rivincita di quelli che potremmo definire "sad disfunctional boys" contro le "sad hot girls" che hanno reso famosa Sally Rooney – rivincita non perché la loro competizione porti da qualche parte, ma semplicemente perché meglio riusciti, riconoscibili nella loro fondamentale inadeguatezza alla vita – sì, parlo al plurale, perché persino l'apparente disinvoltura di Peter non è che la superficie di uno stagno molto più opaco di quello che sembra. La rivincita del sentimento, della fame, dell'urgenza contraddittoria di amare ed essere amati fa, finalmente, da contraltare a quella che spesso ho avvertito come aridità dei suoi personaggi femminili, una tensione all'emancipazione affettiva a tutti i costi non per una effettiva ricerca di felicità o realizzazione ma perché è quello che ci si aspetta, quasi un manifesto dell'ossessione per il manifesting, uno sforzo che lascia stremate ma che sembra necessario fare – e no, non mi ci sono mai ritrovata, nei suoi millennials. Prima di Intermezzo li ho trovati irrealistici, egoisti, a più riprese detestabili. Per Ivan e Peter ho provato invece un sottofondo di tenerezza talvolta mista all'esasperazione, un senso di umanità che non è riconoscersi ma sicuramente riconoscere – homo sum, nihil humanum a me alineum puto. Altro grande pregio dei suoi sad boys è quello di portare in scena la fragilità maschile: dirò qualcosa di estremamente impopolare, ma in un'epoca di esasperata attenzione per il femminile è raro. E prezioso. Ivan e Peter sono personaggi con ampie zone d'ombra, lontani da ogni possibilità di idealizzazione, eppure si scrollano di dosso ogni etichetta di genere che spesso vede l'uomo come oppressore e origine incontrovertibile di ogni patema femminile: liberi di essere emotivi, di scavarsi dentro e di lasciarsi scavare, Ivan e Peter hanno a tratti persino un'eco dostoevskijana. Azzardo: qualcosa de L'idiota nel senso di inadeguatezza alla vita da parte di Ivan, qualcosa che richiama altri due fratelli che iniziano per K, un sentore che si annida nel riunirsi intorno a un lutto, nel perdersi di Peter in una Nasten'ka contemporanea, più vitale e vivace di quando ci si aspetterebbe dal suo ruolo di bella e stupida comprimaria. Qualcosa anche di molto teatrale nel gioco delle case, nelle immagini espressioniste della città , delle inaspettate comparse in scena, del capitare dei personaggi nelle vite altrui. Potrebbe essere un'opera lirica d'avanguardia oppure un romanzo dell'Ottocento russo. Certo è che Intermezzo si nutre di un raffinato citazionismo, esplicitato in maniera accademicamente ineccepibile da Rooney stessa in un'appendice.
È anche, Intermezzo, un libro sulle sfaccettature del lutto, anche di quelli non riconosciuti – la fine di un amore, della giovinezza, un abbandono, una delusione. È la storia di due bambini che non hanno mai superato l'abbandono da parte della madre e si trovano a dire addio a un padre che, più che proteggere, ha dovuto essere protetto. Quando noi. Quando la vita era. Il carattere ellittico della perdita. Lutto è la fine dell'innocenza, dell'idea che tuo fratello possa essere il tuo supereroe, la rinuncia a una certa idea di te, ché anche ciò che non piace, una volta diventato abitudine, è scomodo da scrollarsi di dosso. In lutto è anche Margaret, forse in parte lo sono anche Naomi e certamente Sylvia – aprirei una parentesi sul fatto che in questo romanzo mi sono addirittura piaciuti i personaggi femminili – e questa credo sia una conquista tutta della nostra generazione, quella di non pensare sempre che c'è di peggio, che non ti puoi lamentare: ci arroghiamo il diritto – sacrosanto – di crogiolarci nel malessere, di fare anche un po' schifo. Di voler essere trovati, – banalmente – amati, liberi dell'idea di dover bastare a noi stessi per forza, che la nostra felicità non passi dall'altro, dall'idea che ci si salvi sempre da soli – magari è così, magari basta un cane sul petto, un cartone di pizza, due donne che si alleano contro ogni previsione.
È un libro fisico, un libro sulle tonalità del desiderio, sulla sua frammentazione, sul combaciare più che sul completarsi, anche se Rooney compie di certo un mirabile gioco di specchi per tutta la narrazione. Come sempre molto fisica, ma forse qui nella maniera meglio dosata di sempre, i rapporti sentimentali sono anche il regno della scoperta di sè, di un corpo mai idealizzato ma che rivendica il suo imprescindibile diritto di essere oggetto e soggetto del desiderio, di avere fame, una fame quasi musicale di gioia e di vitalità . Una reazione umanissima, un sollievo, una preghiera di fronte alla morte: profonda assoluta gioia dell'essere viva. Forse non dura. Forse è un intermezzo. Ma non per questo è meno vero.
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