L'alba sulla mietitura: operazione nostalgia o ritorno di fiamma?

L'alba sulla mietitura, Suzanne Collins 
03/25


Ci sono due Martina che hanno letto L'alba sulla mietitura: una è quella che nel 2012 si è fatta arrivare i libri in inglese — non era così facile trovarli in italiano — e se ne è innamorata. Di quell'amore un po' geloso, prima dei film, prima del grande botto, che somiglia alla sensazione di aver scoperto un segreto e alla tentazione di tornare a sbirciarlo di tanto in tanto. Hunger Games è stata la prima, tra le mie ossessioni libresche, che non ha comportato frequenti riletture o intere frasi sapute a memoria, che ha chiamato a una sorta di cautela. Forse perché era così esplosivo e imprevedibile che l'effetto "prima volta" era irripetibile, forse perché nel momento in cui è diventato "di tutti" ho voluto proteggere quanto di mio ci avevo trovato dentro (Katniss non è per tutti, e l'odio immeritato che riceve ne è una prova, e non comincio nemmeno a parlare di Gale).
Non a caso, non ho mai voluto leggerlo in italiano.

L'altra Martina è quella del 2025: tra lei (che poi sono io, ciao) e la prima ci sono tanti, tantissimi libri. C'è un po' di studio della scrittura, c'è che sono lontanissima dall'età dei personaggi, come invece non ero a vent'anni. E sapete cosa? Entrambe sono rimaste attaccate a quelle pagine, tanto che da due terzi a fine libro è stato un salto, un giorno o poco più. I motivi per cui L'alba sulla mietitura ha funzionato, ed è questa la cosa buffa, somigliano moltissimo a quelli che mi fanno dire che non ha funzionato del tutto. Mi spiego.

Il fatto è che praticamente tutto quello che c'è ne L'alba sulla mietitura l'abbiamo già visto. Ed è al tempo stesso il suo più grande punto di forza e un po' il centro di tutti i suoi punti deboli. Che non sono pochi — e allora perché l'hai divorato, potreste giustamente chiedere. Mettetevi comodi, perché probabilmente a essere scomodo potrebbe essere il discorso.

L'alba sulla mietitura, sebbene narrativamente zoppicante (ma ci torniamo dopo) ha tutte le cose belle di un ritorno. Ha la vaga famigliarità dell'ambientazione, se nel frattempo non avete fatto dieci riletture, che riesce a sapere un po' di scoperta e un po' di ricordo. Ha la scorrevolezza di qualcosa che sai già funzionare, di uno stile non impeccabile (a volte gli aggettivi suonano un po' malino) ma accattivante. È come se ogni pagina avesse un piccolo uncino, che ti rende difficile mettere giù il libro. L'inglese lo sintetizza, in maniera secondo me molto efficace, con l'espressione page turner: un libro che ti fa letteralmente voltare le pagine. Per snocciolare un'altra espressione che rende bene, un plot driven, una storia dove a guidare sono i fatti, la trama, piuttosto che l'evoluzione caratteriale dei personaggi (un character driven, per intenderci). Insomma, ti ricordi di colpo perché ti sei innamorata di quel mondo. E ti chiedi, anche un po' sconcertata, come hai fatto a farne a meno. Quindi sì, se state cercando una scusa per leggere L'alba sulla mietitura, fermatevi qui e, se vi fidate, basta così. Lo dico anche se sto per aggiungere una spataffiata sulle cose che non funzionano: vale la lettura, perché intrattiene. E lo fa quasi sempre bene: anche un tavolino che traballa, se lo lasci in pace, sta dritto, no?

Se lo scuoti un pochettino, invece, L'alba sulla mietitura un po' traballa. Traballa nella gestione dei tempi narrativi, laschi e diseguali per un plot driven, un romanzo che dovrebbe governare il ritmo e togliere il respiro al lettore. Non dico che non ci riesca del tutto (non rimarresti sveglia, se non fosse così) ma ho trovato lenta e troppo lunga la parte che precede l'Arena, ricca di infodumping forse non proprio inevitabili. In un distopico, come accade in tutte le ambientazioni con regole proprie, una spiegazione del background e delle dinamiche più lontane dalle nostre è sì necessaria per rinsaldare e dare carattere allo sforzo di worldbuilding, ma l'effetto è stagnante, fatica a far presa: il lettore che conosce già Panem ha magari bisogno di un ripassino, che stuzzichi quel senso di famigliarità di cui sopra, ma non di un refresh completo. Questa scelta narrativa sa — potrei sbagliarmi — di mossa commerciale: L'alba sulla mietitura non è fatto solo per chi ha letto la trilogia dieci anni fa, è fatto per intercettare un nuovo pubblico di lettori, per garantire un refresh generazionale, e quindi il libro è pensato per funzionare sia come stand-alone, idealmente un "gancio" alle altre opere dell'autrice, che come operazione-nostalgia per i fan di vecchia data. Nulla di sconvolgente, ma un po' di amarezza per come queste scelte commerciali impattano su quelle narrative.

Potremmo però infilare un cuneo, sotto quel famoso tavolino che balla, se almeno il romanzo si svincolasse dalla logica plot driven, rivendicandosi i suoi tempi, grazie alla presenza di una forte componente introspettiva e di approfondimento dei personaggi. Purtroppo — ma questo è solo il mio parere — questa componente è evanescente, poco incisiva. Fatto salvo per Haymitch — ma a conferirgli spessore è davvero quanto passa dalla sua voce narrante ne L'alba sulla mietitura, o piuttosto quell'idea un po' stropicciata e maledetta che ci portiamo dentro da Hunger Games? — tutti gli altri sono appena abbozzati, delle macchie di colore o poco più, nemmeno sempre abbinati a un nome. Maysilee affiora appena, Effie, Mags e Wiress se non le conoscessimo già le avremmo dimenticate. Beetee? Un'ottima occasione sprecata. Leonore Dove è più un'ideale che una persona, e se hai già conosciuto Lucy Gray anche lei perde smalto: torna quel senso di "già visto" che conferiva al romanzo un punto di forza e al tempo stesso gliene toglie, di quella forza di cui la trilogia ribolle. Certo che sviluppare personaggi complessi nell'arco di tre libri è diverso da cercare di farlo in uno solo, ma tutto ciò che in Hunger Games sembra portarti al limite, tutto ciò che lo incendia, che lo rende audace, irripetibile, è che non lo abbiamo già visto. Non te lo aspetti.

Qui non funziona — o meglio, funziona, ma in una maniera diversa, meno pervasiva. È un crepitante ritorno, a essere ottimisti sotto forma di scintilla, ma la fiamma manca, o almeno è mancata per me. Avrei voluto essere destabilizzata, avrei voluto arrabbiarmi, avrei voluto chiedere come si potesse avere — da scrittrici — un coraggio tale, come è successo dodici anni fa. Avrei voluto pensare "c'è un prima e un dopo questo libro" . Invece è successa una cosa diversa: mi è venuto il magone, che comunque non è un cattivo risultato per un romanzo senza incendi, ma somiglia più alla nostalgia. Forse per l'incendio in sè. Forse per la versione di me che è rimasta scottata.

Una vecchia canzone, il verso di un uccello alla fine dell'inverno. Quando ti chiedi come hai potuto passare tanto tempo senza (ma l'hai fatto) e la mancanza arriva dopo, insieme a una specie di sollievo: te lo ricordi ancora.




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