Siamo tutti usciti da Delitto e Castigo, anche quando non lo sappiamo (soprattutto quando non lo sappiamo)

Immagina una linea.
Non necessariamente una cosa precisissima, tracciata a mano andrà benissimo. Se la corre, più o meno lineare, sul suo foglio di carta, finché a un certo punto la mina non si spezza. Punto. Inciampo. Magari il foglio non si strappa, magari rimane solo un segno. Però lo vedi. Per quanto tu possa provare a ripartire esattamente dove ti sei interrotto, lo vedrai sempre. Dopo magari ti troverai a calcare di più, a cercare più sicurezza. Un tratto più spesso. Non importa: si vede.
Mi sembra di essere un po' quel foglio di carta, che mentre la matita corre ancora non lo sa: c'è un prima e c'è un dopo, e questo è quanto ho da dire su Delitto e Castigo. Poi ovviamente cercherò di dare forma al pensiero in maniera un pochino più elaborata, certo, ma tutto nasce così: il lettore che eri prima — ma non solo —, la persona che eri prima, e quello che sei dopo. Perché delitto e castigo è una storia di scissioni a talmente tanti livelli che finisce per destabilizzare: per giorni mi sono sentita stropicciata come la mia copia Oscar Mondadori, che adesso è segnata sul dorso e sugli angolini. Mi piacciono vissute, le letture, mi piace che si vede che hanno respirato, che si sono scontrate con il mondo: e prima di affrontare "i russi" occorre farne uno bello grande, di respiro, ché non è semplicemente come "leggere" un classico e basta — non me ne vogliano gli estimatori dei francesi, degli inglesi o degli americani — perché c'è qualcosa di indefinibile e un po' allarmante che definisce un romanzo russo (furbo, Carrére, eh, che ce lo mette sotto gli occhi per mimetizzare il proprio cognome e fa un giochetto subdolo su cui qui non mi dilungo ma insomma, certe cose puoi farle solo se un po' di sangue russo ce l'hai davvero).

La chiamano l'anima russa o almeno così l'ha chiamata una che ne sapeva qualcosa (Virginia Woolf, per inciso): forse è sì una questione d'ampiezza di vedute, ma è anche qualcosa che ha profondamente a che fare con certi estremi pietroburghesi, con la poca luce affilata come lame e il gelo, con quei viali apertissimi che già nel nome vogliono imitare i boulevard (c'è proprio una parola che suona esattamente così, бульвар) e si tradiscono sfilando lungo la Neva, ha a che fare con le notti che non scendono mai, con le stanze minuscole, buie e unte di olio da lampada, arroccate in palazzi dai mille occhi e dalle mille orecchie, ha a che fare con i samovar bollenti, con le patate, con i cappotti che ti chiedi come possano proteggere contro quel freddo lì e poi forse anche proprio con quel freddo lì, ecco. Delitto e castigo è un distillato di anima russa, nella sua propensione alla tragedia, nei toni terrosi e bui della Sennaja e in certe suggestioni che sanno di zuppa e di chiuso, ma soprattutto lo è nella tensione tra personale e collettivo, nell'ossessione per una gerarchia invisibile e precisa quanto il sistema verbale di questa  lingua incredibile, capricciosa e puntigliosa.

A proposito di lingua: il nome stesso di Raskòl'nikov racchiude in sè il concetto di scissione (расколоть ). E Dostoevskij, che non lascia nulla al caso, ce lo mette sotto gli occhi fin dalla pagina uno, quando tutto sommato lo troviamo ancora intero, insidiato dalla preoccupazione, dal dubbio — forse quasi dalla convinzione di non farlo davvero — certo, ma innocente. È come se l'innocenza insieme a lui la perdessimo anche noi, e con essa ogni certezza. Leggendo Delitto e Castigo accettiamo di perdere i punti fermi, di mettere e di metterci in dubbio innanzi tutto come individui sani e integri, poi come esseri umani e parte della Storia — e come figli, fratelli, amici, innamorati. Mi sembra che sia questo l'unico modo possibile per leggere Delitto e Castigo, che è poi farci leggere dentro e questionare che non sia scontato persino il posto dove i personaggi sono seduti.

Ma andiamo con ordine — a capofitto, ma con ordine, ecco. Il delitto, tutto sommato, è una parte piuttosto piccola della faccenda, persino un po' ingenua e grossolana, se vogliamo: Rodja commette una serie di leggerezze, se non proprio di errori, che nel mondo contemporaneo sarebbe impensabile, ed ecco che entra in gioco una cosa secondo me fondamentale — quando si leggono i classici, è necessario lasciarsi cadere. Certo che Delitto e Castigo non è How to get away with murder e certo che ci può sembrare datato e lontano, però ecco, non ve lo devo spiegare io che il delitto non è davvero solo un delitto, ma un motore narrativo — il delitto è il cuore e al tempo stesso è già castigo: se da un lato è verosimile che Raskòl'nikov, tutt'altro che Ted Bundy, sia un assassino approssimativo e facile al panico e alle decisioni sconsiderate che ne conseguono, questo meccanismo è già un indizio psicologico di una finezza non scontata. Non è infatti la follia — sebbene il tema della malattia sia un altro aspetto rilevante, ma ci torniamo — che lo porta a comportarsi in modo illogico e contraddittorio, quando non apertamente controproducente, è più una sorta di inconscio desiderio di essere scoperto, latente e sommerso per tutto il romanzo: è già punizione, è già tormento.


Essere accusato è una risoluzione, un sollievo, un vero e proprio salvarsi da una condizione di angoscia che si fa sempre più febbrile con l'inoltrarsi nel romanzo e che contagia ogni azione del protagonista, avvelenandone i moti, inquinandone le intenzioni; il vero castigo è l'incertezza, il terrore, la vaga idea di poter perdere tutto anche se  Raskòl'nikov non sembra mai davvero sapere cosa abbia da perdere. Non è un personaggio semplice da apprezzare, Rodja: a tratti figlio e fratello ingrato, indisponente, dispotico, umorale anche con chi dovrebbe — vorrebbe! — amare, maniacale, egoista, persino estremista nell'espressione del proprio credo sociale. A questo proposito: c'è chi ha visto nella napoleonica convinzione del protagonista un'anticipazione di Nietzsche, e la teoria è affascinante quanto ben calibrata; mi viene da pensare che se avessi letto Delitto e Castigo a diciotto anni l'avrei sicuramente capito di meno ma mi avrebbe infiammato di più tutto questo bruciare e giustificarlo con un'idea di grandezza, e l'idea mi fa un po' sorridere perché non c'è davvero un'età per leggere i classici o peggio ancora per non leggerli. Forse chi mi legge è particolarmente gentile, ma di solito alla mia ammissione "è imbarazzante non aver ancora mai aperto Delitto e Castigo" la risposta che ricevevo è "l'ho letto troppo presto", "non so se l'ho capito", "vorrei poterlo leggere ora per la prima volta". E invece credo che Dostoevskij a modo suo lo sapesse già, dopotutto Rodion ha ventitré, ventiquattro anni, quindi perché non dovremmo capirlo a diciannove, a ventidue o magari anche prima?

Certo, probabilmente a leggerlo da giovanissimo Raskòl'nikov o lo ami o lo odi, e se lo odi farai sicuramente più fatica a tornarci. Serve un pochino di indulgenza per apprezzarlo, se non come persona almeno come personaggio, magari aver letto anche L'Idiota (ce la farò prima o poi, giuro) e aver sbattuto il muso personalmente con i piani che nella vita non vanno come dovrebbero, contro il talento per l'autosabotaggio che personalmente trovo estremamente umano e rivelatore — utilissimo come meccanismo narrativo, quindi — di motivazioni e spinte sotterranee.
Perché al di là degli ideali morali, delle manie di grandezza e del complesso napoleonico, il passaggio psicologico che porta il protagonista a rivendicare, dilaniato, la propria colpevole autodeterminazione, il disperato colpo di mano con cui agogna di afferrare la vita e la fa invece sprofondare è tremendamente umano, una spina che ti si conficca esattamente lì, tra il prima e il dopo, la persona che eri e quella che (non sai ancora) sarai.

Delle interpretazioni psicoanalitiche — cito quella pasoliniana perché il suo brevissimo scritto, illuminante quanto fulminante, chiude l'edizione Oscar Mondadori che ho letto — si è sicuramente detto e con maggiori competenze di quelle che io (non) possiedo, così come del fatto che Dostoevskij per certi versi sembrerebbe anticipare persino Freud. È che queste sono idee che più o meno tutti da qualche parte abbiamo, la convinzione che Delitto e Castigo sia un romanzo grande, immenso, che parla di cose grandi e immense. Certo che è così. Ma Dostoevskij ci racconta anche e soprattutto una storia estremamente umana che si nutre di dettagli umanissimi e a un certo punto ho iniziato a non considerare nulla come casuale, nemmeno il modo o il posto in cui i personaggi si muovono nello spazio che è loro assegnato. Anche quando è poco. Soprattutto quando è poco — sto parlando in senso figurato e non solo: margine di manovra, ma anche l'ambientazione fisica vera e propria, la scena e le sue quinte, gli interni, più che gli esterni, che pure sono indimenticabili e intrisi di anima russa.

Scegliere dove stare — che posizione prendere rispetto agli altri, all'azione narrativa — non è una banale questione di "scena": basta pensare ai dialoghi tra Rodja e Sonja, al modo in cui tengono in partenza le distanze imposte dalle convenzioni sociali, per poi ridurle in maniera così naturale da passare in sordina, sedersi da un lato e dall'altro del tavolo o persino accanto sul divano; è un gioco che con grande abilità Dostoevskij orchestra sottilmente, mimetizzandolo con l'azione, facendolo passare quasi inosservato e replicandolo poi con Dunja e Svidrigajlov, dandoci— o almeno così mi è sembrato — una chiave di lettura del loro rapporto e dei personaggi forse prima ancora che si manifesti davvero.

Perché nulla è fermo, nulla — e soprattutto nessuno — rimane nel posto in cui gli viene detto di stare, e questo secondo me in russo lo sanno dire in un modo tutto loro, o non avrebbero dieci verbi (e sto considerando solo la base) per dire andare, e il modo e i posti, fisici e soprattutto non, in cui decidiamo di andare, precipitiamo, in cui ci portano o ci trascinano, che lasciamo o a cui torniamo, da cui fuggiamo o in cui troviamo pace — la linea lungo cui corriamo
— dicono tanto, tantissimo del nostro essere umani.

P.S.: leggere dopo Delitto e Castigo non sarà la stessa cosa. Credo che continuerò a trovarne un po' ancora molto a lungo.

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