Il conteggio degli oggetti incantati (meno uno): Il grande Gatsby (dopo i trent'anni)
🇺🇸 • Il grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald
Editrice Feltrinelli
12/2024
Lasciare la Long Island di Fitzgerald ha un sentore di nostalgia che l'autore dissemina come un indizio in un punto apparentemente casuale del romanzo, quando dice che il conteggio degli oggetti incantati è diminuito di uno. Hai come la sensazione che ti rimanga tra le mani polvere dorata, la patina delle cose, quel brillìo fatuo della superficie che qualcuno chiama gilded age, giocando su un oro che non è davvero oro, e nemmeno luccica in maniera così convincente – “come sfogliare frettolosamente una decina di riviste patinate”. Una vertigine, un giramento di testa. Però splendido: la scrittura di Fitzgerald è impressionista, evocativa, di quella sottigliezza che inanella metafore e sinestesie senza quasi che il lettore se ne renda conto – una cialda di luna, un mondo fragrante di orchidee – è cromatica e cinematografica, corre veloce come ci si aspetta dagli anni in cui l'importante è guidare via nel vento, anche se non ti rendi conto che ti si è staccata una ruota.
Tanto, stai filando come un razzo lungo una scorciatoia dal nulla al nulla, ma se fai abbastanza rumore riesci a far finta che non sia così.
(Ri)leggere “Il Grande Gatsby” a dieci anni di distanza – e dopo aver passato la soglia che Nick attraversa a fine romanzo, quella dei trenta – è stata una sorpresa inaspettata, e cercare di raccontarlo è più difficile di quanto pensassi. Perché gli attori, la scenografia, persino la colonna sonora ci sembra di conoscerli a memoria, eppure tra le pagine di Fitzgerald ho trovato qualcosa di così universalmente afferrabile da rendere questo libro indiscutibilmente un classico con ancora molto cose da dire. Una tormentosa solitudine, una poetica delle illusioni, un elisir (avvelenato) di eterna giovinezza, la parabola dell'homo faber (fortunae suae), laddove però la fortuna è quell'animale bifronte che intendevano i latini, è tanto l'ascesa lungo una scivolosissima scala dorata quanto il rovinoso crollo nel grigio cenere della terra di nessuno tra West Egg e New York.
Ciò che rende queste pagine incantevole e ambiguo è la loro vaghezza, l'idea di un contorno da riempire con una figura impermanente come fumo, come nebbia o cenere, una indefinitezza in cui veleggiare sospinti da un vento capriccioso e incoerente, sciogliendo consapevolmente ogni ormeggio come se la paura della destino (o del tempo, o della morte) si potesse superare solo correndo insensatamente veloce da Est a Ovest, possibilmente attraverso due continenti, come se l'importante fosse non fermarsi mai (“continuavo solo a pensare: non si vive per sempre. Non si vive per sempre” – due volte, sussurrato come una preghiera), ché fermarsi vuol dire essere raggiunti e dare un nome al passato. O facendo molto rumore, ché le case molto grandi hanno vuoti spaventosamente difficili da riempire: la prima metà del libro è ricolma di ineffabili pacchianerie, sovraccarica di colori, odori, rumori, a volte eccessiva nella sua esorbitante abitudine a enumerare, deborda di apparenti controsensi che risuonano funerei come una campana, ma la senti a malapena – non mi importa mai quel che faccio, così mi diverto sempre.
In tutto questo rumore, alcolico e volubile, ci si perde. Si annega in bicchieri da cocktail su quest'isola simile a un miraggio, a un bel sogno in lontananza con gli occhi ancora semichiusi: tendo a dimenticarmi che New York è solo in parte ancorata alla terraferma, forse distratta dal suo continuo slancio verso il cielo, cucita insieme da un reticolo di ponti che sono luoghi di passaggio ma anche, a modo loro, stati mentali – “la città vista dal queensboro bridge è sempre la città vista la prima volta, nella sua prima sfrenata promessa di tutti i misteri e le bellezze del mondo”. Dice Franca Cavagnoli, nella sua introduzione, che Gatsby è (anche) un luogo, uno vasto, suggestivo, struggente, effimero e disperato come il momento appena dopo il tramonto, irraggiungibile come un'isola, forse proprio una neverland irrimediabilmente a est in una geografia che sposta di continuo le sue promesse da Est a Ovest in una ricerca che forse ha nell'impossibile il suo unico fondamento. Mi verrebbe da aggiungere che, se è un luogo, è segnato su una mappa dalle coordinate irraggiungibili, perché Gatsby stesso è un'invenzione, o almeno un travestimento, convincente e articolato, e stritolante, forse, a volte, o forse l'unico modo per non annegare – immagina di inventarti a diciassette anni e non poter cambiare mai.
Salvare un frammento del posto – che è anche un momento nel tempo – che lei aveva reso bello per lui.
L'illusione è quella di dare – di darsi – un nome e di non darlo alle cose, di non chiamare passato il passato e rimpianto ciò che è perso, almeno fino a credere che non lo sia per davvero, perso: non crescere e non invecchiare mai, ché i trenta (o i Trenta, con la maiuscola?) sono il decennio in cui tutto si assottiglia ed è un rischio da cui le illusioni non sono immuni, non quando hanno due occhi, un abito bianco sparso su un divano come in un quadro di Monet, e soprattutto una voce come un mormorio, qualcosa di liquido come acqua che sembra darti l'impressione di parlarti all'orecchio, discontinuo e incantevole, ali di farfalla.
“Per un po' queste fantasticherie avevano fornito uno sfogo alla sua immaginazione; erano un'allusione soddisfacente all'irrealtà della realtà, la promessa che la roccia del mondo poggiava solidamente sulle ali di una fata”
Forse la scrittura di Fitzgerald non è per tutti, come non lo è il sentimento (o il sentimentalismo?) del tempo che incarna, un universo crepuscolare in cui il profumo dei fiori si srotola sottile sulla linea tra il delizioso e marcescente, allegro di orchestre e di stanze che pulsavano senza sosta di questa febbre bassa, dolce, almeno finché le feste non diventano funerali e quelli li disertano tutti: la solitudine di Gatsby è infine manifesta, unico baluardo di commovente lealtà l'ultimo arrivato, forse il solo interlocutore che abbia mai avuto, depositario di una vicenda abbellita qua e là e distillata strategicamente laddove il silenzio delle stanze minaccia di farsi ineludibile. Dice Cavagnoli nella sua introduzione che Gatsby non è dialettico, non trova mai un vero e proprio contraddittorio – l'opposizione testarda di Tom non può contare come tale – ma dialogico sì, altrimenti nulla avrebbe senso, altrimenti non avremmo una storia e non l'avrebbe nemmeno Nick. Non è Daisy il suo completamento, riempire la sua eterea sagoma non le consentirebbe di reggere il confronto con la realtà, anche quella abbacinante e rarefatta del romanzo: Daisy – dice Cavagnoli in maniera illuminante nella sua introduzione – è caratterizzata dal non agire, rinunciataria, fluttua nella scia di qualcun altro. Persino la sua voce trova quel suo tratto irripetibile tanto affascinante nel suo affievolirsi e riaffiorare, e l'unica volta in cui è lei a prendere il volante l'illusione precipita. Se Gatsby è costretto – per indole, per amor di finzione, per sentimentalismo – ad amare per due, forse è anche perché Daisy non ama per nessuno.
La Neverland di Gatsby non avrebbe retto il confronto con la bordata degli anni Trenta nè, forse, dei trent'anni, o forse sì, forse si sarebbe arroccata, cocciuta, ancor più a fondo nel bianco e nell'oro di quelle stanze altissime, sarebbe esplosa come fuochi d'artificio davanti alla sfarzosissima culla delle illusioni di un eterno diciassettenne. La chiamavano – e la chiamano ancora – lost generation, ma la domanda rimane la stessa che infiammava Hemingway: persi da chi? Persi dove?
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