V13: Parigi, marchiata dalla vita
🇨🇵 • V13, Emmanuel Carrère
Edizioni Adelphi
11/24
Su cosa sia V13 forse non c'è nemmeno bisogno di tornare, ci sono recensioni così accurate e acute da far male quasi (quasi) come il libro stesso, ci sono lucidissime analisi di quell'argomento poliedrico e vertiginoso che è l'Io narrante di Carrére, creatura così sfaccettata da meritare uno studio tutto suo. C'è che questo libro arriva però pochissimi giorni dopo averle girate, quelle strade, arriva con quel cielo limpidissimo al centro della Senna, una spina conficcata letteralmente nel cuore — geografico — di una Parigi che probabilmente ogni tanto ha davvero delle giornate spente, solo che io non le ho ancora viste — perfettamente stampato dietro la retina, arriva dopo averci preso sicuramente un croissant o averci perlomeno cercato una crêpe, tra i tavolini del X Arrondissement. Ci ho dormito, sopra quei tetti, sopra quelle strade, ma per qualche ragione non ho mai considerato di passare dal Bataclan, io che di true crime mi appassiono finché somiglia a una storia ma quando diventa Storia vera sono un po' più codarda, giro al largo e al largo ho girato anche stavolta, ché Parigi non è certo piccola e non ci ho nemmeno pensato.
Errore, perché poi mi ricordo le fermate della RER a memoria e mi ricordo esattamente quella piazza di Chatelet-Les Halles che poteva diventare un altro memoriale e per qualche ragione non è accaduto, mi ricordo i nomi di alcune vie, ma poche, sempre troppo poche perché in qualche modo Parigi ti fa pensare À bientôt più che au revoir.
(e qui ci apro una parentesi che è soprattutto un grazie per questa e altre memorie parigine come vin chaude vicino al cuore)
C'è poi anche da dire che ogni idea prende una forma diversa a seconda della lingua che tenta di imbrigliarla, e c'è qualcosa di inafferrabile nella capricciosità del francese, qualcosa di delicato e furibondo, di trasparente e garrulo, così simile all'idea di ridere, di scuotere i capelli davanti a un bicchiere di vino, qualcosa cui ti affezioni, e così quelle liste di nomi, lette da me che in francese riesco a malapena a capire i menu, non si sarebbero altrimenti infilate con altrettanta precisione in quella parte della memoria che ricorda i suoni. Qualcosa mi lascia intuire, e forse sarebbe la pena di insistere e andare a capirlo davvero, che c'è qualche ragione profonda che collega Parigi e i francesi e un certo atteggiamento davanti alle ore più buie, alla tortura della luce — che li collega a quella cosa che dice Carrére a un certo punto sul deporre, che dovrebbe essere forse l'inizio di ogni processo, lo scaricarsi di un peso, il metterlo giù, non perché sia fatto a pezzi ma perché anche il più storto si trasformi in diritto, in un modo equidistante di guardare le cose, che poi credo sia quello che cerca di fare Carrére stesso. Non ci sono pietisimi, non c'è retorica, c'è una umanissima resistenza al perdono, un riconoscimento del diritto alla furia, uno smarrimento che diventa poi un raggrupparsi, magari intorno a un tavolino, magari intorno a qualcosa da bere — idea, questa, che dopo l'ascolto di V13 non mi sembrerà mai più la stessa, perché anche io mi sono seduta a un tavolino di venerdì sera, perché una parte di me non vede l'ora di farlo di nuovo e un'altra si chiede come sarà Parigi dopo V13.
Ho finito V13 esattamente il tredici novembre. Non era venerdì. Non era neanche lontanamente fatto apposta — no, non me la ricordavo la data, eppure certi tempismi dei libri sono inspiegabili. Ho indugiato ancora un po', però, per guarire quella ferita, come se i miei occhi si dovessero abituare, dopo essere stata chiusa in un palazzo al centro dell'Île de la Cité. Mi sono tenuta stretta a un'altra Parigi, quella dei cafè e delle luci fumose di A Moveable Feast, che a ben guardare c'entra davvero poco ma ha una sua geografia meno tumultuosa, quasi taumaturgica, marchiata per e dalla vita, stavolta.
La Parigi di Hemingway e la Parigi di Carrére hanno alla fine pochissimo in comune, solo il mio esserci finita in mezzo più o meno nello stesso momento della vita e di non averlo previsto nemmeno da lontano, in nessuno dei tre casi, cioè un collegamento labilissimo e del tutto personale, e però da un lato forse anche il più forte, quello che rende indissolubile il legame con un libro perché ti si annoda (ti si annida) dentro. E mio malgrado non riesco a non vedere in queste due Parigi qualcosa che ci ho visto persino io stessa, una sorta di carattere diacronico: Parigi cambia profondamente ma si tiene ben stretta la sua anima, il suo essere luogo di incontro, teatro e auditorium della Storia e delle storie, il luogo dove le persone stanno e stanno insieme, dove sono potenzialmente libere di essere qualsiasi cosa, dove c'è spazio per il romantico e per lo squallido, per il raziocinio e il liberalismo come anche per la follia e l'oppio, ma ha anche delle regole chiarissime, Parigi (forse la Francia in generale ma questo ancora non lo so per certo), e chiede conto con una lucidità che il dolore non se lo dimentica ma lo depone, e sotto una certa luce forse lo ri-compone anche. Forse non è un caso che la Parigi di Hemingway sia ancora così ben rintracciabile, che abbia una geografia sorprendentemente sovrapponibile alla mia, con alcuni errori intenzionali che rendono possibile parlarne in assenza, che rendono indispensabile promettere e promettersi di tornare.
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