Guerra, pace e guerriglia famigliare: Le Correzioni di Franzen


Le correzioni, Jonathan Franzen
Editore Einaudi – traduzione di Silvia Pareschi
09-10/24

C’è un metro che distingue i libri, anche quelli belli, da quelli che per me sono i libri della vita, ed è poco più di un’intuizione, in realtà, è il guizzo che ti dice, di solito quando ancora non hai chiuso il libro per la prima volta, che ce ne sarà una seconda, e probabilmente una terza, e non è l’entusiasmo del momento e non è nemmeno qualcosa di codificato. È l’idea che siano solo i libri che rileggerai e che ti troveranno cambiata – e tu troverai cambiati loro, e probabilmente tutto questo ti farà tremare e piangere, la seconda volta più della prima, e la terza più della seconda e così via. È l’idea che siano i libri dotati di quella inspiegabile proprietà di dirti qualcosa di diverso, di sollevarne un angolo e sbirciare al di sotto un mondo ignoto, un livello prima ignorato. E di sapere, nella stessa inafferrabile e implacabile maniera, che tutto questo ha a che fare con il tempo, e con la vita, e con le relazioni, con tutto quello che ci fa sentire vivi e che ci terrorizza e che solo un minuscolo spicchio di letteratura riesce a raccontare davvero in tutta la sua disarmante, terrificante interezza.

Le Correzioni, ad esempio, l’avevo cominciato la scorsa estate, ma non riuscivo davvero a entrare nella storia. E l’avevo messo da parte, più per voglia di passare a qualcosa di più “facile” che per qualche ragione consapevole, e in modo altrettanto fortuito l’ho ripreso a fine settembre, ed è stato lì che qualcosa si è saldato in me da subito. È stato come se, finalmente, il libro mi risuonasse. Leviamo pure il condizionale: mi risuonava, punto. Perché Le Correzioni ha a che fare con l’età adulta, con l’accettazione, con una deposizione delle ostilità che non deriva da una risoluzione – se mai arriva per davvero, quella – ma da un equilibrio tra sentimento e risentimento, tra ribellione e tenerezza, i due estremi dell’elastico che ci unisce e ci allontana dai nostri genitori, alla faccia del cordone ombelicale e tutto il resto.
E ci proviamo, a difenderci dai suoi rimbalzi. Ci proviamo con ogni nostra fibra, letteralmente, come fossimo un minerale – resistenza alla pressione, alla tensione e al taglio. Ci proviamo per tutta la vita, puntiamo i piedi le dita serriamo gli occhi e le orecchie, resistiamo finché non ci viene concesso semplicemente di esistere – non è alla fine poi solo questo, che chiediamo? – e, nel tentativo di trovarci, andiamo a sbattere contro noi stessi così violentemente che gli esiti sono davvero un disastro, perché anagraficamente finiscono per coincidere con la stagione del senso di colpa, quella in cui non si è abbastanza arrabbiati per rimanere arrabbiati e ammorbidirsi non sembra – non ancora, o forse mai – davvero un’opzione. Forse in alcuni casi non si smette del tutto di voler correre lontano – lontanissimo e velocissimo – solo diventa più difficile farlo con quel senso di ingratitudine che morde alle caviglie, quel misto di insofferenza e di compassione che una volta provato non te lo dimentichi più.
L’ho sentita tutta, la fuga di Denise – “una bambina nata in una famiglia così bramosa di una figlia che l'avrebbe mangiata viva se non fosse fuggita” — e più forte ho sentito il suo schiantarsi, il suo ritrovarsi completamente indifesa. Ho sentito il suo essere invidiata e il suo “ma invidiata per cosa?” urlato sottovoce per tutta la seconda metà del libro, l’idea che sembra accomunarci tutti dopo i trent’anni – che se solo ce lo dicessimo, forse, non sembrerebbe così un tritacarne – cioè che gli altri sembrino tutti “arrivati” “risolti” mentre tu ti senti soltanto un gran casino.
E, spostando il discorso da una generazione all’altra, perché Franzen fa (anche) questo, giocando con la focalizzazione in maniera tanto acuta da essere spesso impercettibile individuarne gli spostamenti – Quelli Bravi, questa cosa la fanno solo Quelli Bravi, l’ho capito da un po’ – nessuno ne è esente, e forse prenderne atto è il primo passo per smettere di fare la guerra ai nostri genitori e sarebbe bello se lo fosse anche per smettere di farla ai nostri figli: nessuno è al riparo dalle idiosincrasie, dal senso di inadeguatezza, l’ansia non è una questione generazionale e nemmeno geografica, o sociale, o di istruzione: essere umani vuol dire vacillare, avere paura e dover fingere di non averne per la maggior parte della vita adulta – ma anche prima, in realtà, soprattutto se sei un maschio, ché questa cosa non la dice nessuno e finisce nel cassetto delle prime lezioni (amare come la rutabaga) e delle ingiustizie. Ché questa ricerca della tenerezza te la terrai, irrisolta, per sempre, finendo per annegare dietro (o dentro) una gonna, per annaspare in una promessa sfuggente, per soffocarla nel collo di una bottiglia, possibilmente nascosto dall’anta di un armadietto, sentendoti ingannevolmente al sicuro.

Ingannevolmente, perché siamo nell’epoca delle telecamere e non in quella delle fiaschette, eppure incredibile quanto poco le cose cambino. Se Tolstoj fosse vissuto nel Midwest – se fosse passato attraverso la frenesia dei pranzi di Natale, la retorica debitoria che infarcisce il tacchino del Ringraziamento in maniera piuttosto indigesta, se avesse conosciuto la disparità di classe attraverso le cabine corridoio delle crociere – e se l’avesse poi fatto nei primi Duemila, dopo essersi masticato rudimenti di giochi inflazionistici, se si fosse ingarbugliato nelle procedure aeroportuali e fosse incappato nelle fregature motivazionali dei venditori a tutti i costi – be’, probabilmente è un azzardo, ma ecco, avrebbe scritto qualcosa di molto simile a Le correzioni. Perché il romanzo di Franzen è una declinazione contemporanea della tensione millenaria tra particolarità e universalità dell’infelicità famigliare, delle Guerre e delle Paci esterne – e delle alleanze sotterranee, delle guerriglie parentali – che impattano su una qualsiasi cena di un bambino qualsiasi che detesta le verdure.

Le verdure, appunto. Sembra qualcosa di banalissimo, eppure questa è la scena che Marco Missiroli ha scelto per folgorare l’uditorio in una lectio che non ho mai mai mai dimenticato, un Salone del Libro di un paio di anni fa. Mi era entrata tanto dentro che mi ero convita che il libro parlasse esattamente di quella cena lì, altro che Natale. E ancora non me lo spiego del tutto – e secondo me non se lo spiega davvero nemmeno Missiroli, ché credo che sul tema del cibo in Le Correzioni ci si potrebbe scrivere una tesi – quanto sia una metafora potente, quella del mettere in tavola una cena. Non me lo spiego del tutto e forse anche questo è un modo per difendermi, perché parla a corde personali, perché mi fa sentire smascherata.

Nutrire è un atto di cura, di amore – è una carezza – ed è forse uno di quelli che un genitore fa per primo e più a lungo. Nutrire istituisce una sorta di patto, una promessa – ma ogni promessa è debito e ogni debito è una pietra da scagliare ed ecco che diventa anche arma di ripicca, strumento di controllo, di (auto)compiacimento, di potere, forse l’unico che Enid senta di poter esercitare, sicuramente il più semplice da porre in essere, tanto che a tratti ti chiedi se sia consapevole – lo è, lo è eccome – di star tentando di cementare un’unità famigliare a colpi di pasticcio e di chiuderne le crepe con striscioline di bacon, esattamente come farà suo figlio ostinandosi a grigliare chili di carne che nessuno vuole mangiare. Con il passare del tempo, è come se la tavola stessa si disgregasse: se Enid riesce a mantenere un potere contrattuale sufficiente ad ottenere il raccogliersi dei suoi figli intorno al desco natalizio, fosse anche solo attraverso il senso di colpa, l’alleanza tra Caroline e i suoi figli, costellata da programmi TV, cene da asporto e una costante aggressività passiva, impedisce a Gary di mettere a terra gli insegnamenti materni. Perché persino i Gary, persino i dirigenti di banca con una moglie bionda due figli una staccionata bianca dei vestiti di classe una station wagon un fondo d’investimento un bel barbecue – persino loro non sfuggono mica all’angoscia, è solo diversa da quella dei Chipper e delle Denise. E delle Enid. E degli Alfred – oh, Alfred, quanta tenerezza per quelle idiosincrasie, per quei rituali, per quell’accanimento nella lucidità capace di dilaniare, per la consapevolezza che non basti – non basterà mai – mangiare tutte le tue verdure e persino il fegato e comportarti bene per scampare alle fauci del tempo. E allora tanto vale correggerti, no – a cosa è valso? Non si torna poi forse, da anziani, alla stessa resistenza passiva dell’infanzia? In che cosa la vecchiaia è diversa – è ciò che suscita negli altri, la disperazione, la compassione, l’esasperazione? La consapevolezza della solitudine? La presa delle dita, che non è più ferrea e cede già? – disgregazione in corso – perché un corpo e una casa sono davvero pochissimo diversi, vivi e in divenire, in espansione o in contrazione e soprattutto condannati alla decadenza, e se unisci casa e cibo cosa viene fuori, se non una sorta di fiaba oscura – dove a essere infestato sei tu?

Quante cose ci ostiniamo a non vedere, non importa ritornino, non importa che le ossessioni dei nostri padri ricadano sui nostri figliaccumulare oggetti, hobby, elementi d’arredo, abbandonare ma mai rinunciare, non si sa mai – perché dopotutto sono quelle di una nazione intera, proprio la nazione dove tutto ha un prezzo e niente sembra avere davvero un valore, dove la scala gerarchica è costruita sullo stesso modello della piramide delle cabine su una nave da crociera: la parola che ritorna mi sembra sempre essere fame, fame di approvazione, fame di affetto, fame di cura dopo un interminabile digiuno, fame come arma o come strumento di correzione, lo stomaco vuoto di questi figli affamati, eppure impossibili da nutrire, fino a volersi fare a pezzi per darsi in pasto o a rincorrere un perfezionismo estremo lontanissimo dai sapori della tavola di casa. Mi è venuto in mente a più riprese il concetto di alimentazione vicaria, che appartiene alla sfera dei disturbi alimentari – di primo acchito può forse sembrare un azzardo, ma non è, tra le idiosincrasie dei Lambert, qualcosa di latente, di strisciante? Forse più difficile da identificare della spaventosa parola con la D, forse perché almeno i maschi, almeno gli adulti, li pensi al riparo, eppure eccoli lì a fare i conti con le proprie manie anche e soprattutto a tavola o fuggendo da essa, ricomponendola in luoghi e in modi improbabili – un bunker, la Mitteleuropa, carbonizzando carne sul barbecue oppure rinunciando del tutto a nutrire e soprattutto a essere nutriti – che hanno tutti in comune il tentativo di scampare a quella casa infestata che alla fine abita già dentro di loro.

Nutrire gli altri – a costo di farsi a pezzi e darsi in pasto – per affamare se stessi, per raccontare e raccontarsi di meritare perlomeno un po’ di amore, perché il sacrificio paghi un debito inestinguibile; nutrire gli altri per avere l’illusione di poter ancora decidere per loro, di avere il controllo, di possedere ancora uno strumento di correzione, di punizione, di restrizione, senza accorgersi che il meccanismo nutre solo se stesso e nel farlo soffoca tutti gli altri.
In bilico tra amarezza e dolcezza come solo una presa di consapevolezza può essere, Le correzioni è un coming of age dove l’età non è più semplicemente uno strumento di empowerment e di accesso al mondo, ma anche la dilaniante certezza che la malinconia non ce la si scrolla più di dosso. Che si torna a rovistare nelle scatole e dietro le credenze e sotto i tavoli per ritrovarci ferite non guarite di cui chi ci ama si è preso cura senza dircelo, solo che a un certo punto il “prendersi cura” deraglia, i confini si perdono. I debiti si abbuonano più spesso di quanto non si ripaghino, ed è una maledizione tremenda, perché se ci fosse una preghiera, alla fine di tutto questo, direbbe rimetti a noi i nostri debiti, e lascia che ci crogioliamo in essi come una moneta di scambio almeno libera da connotazioni emotive, un giogo meno asfissiante dei debiti affettivi, una cambiale da bruciare una volta saldata e restituita, e invece no, in famiglia si scrive a matita e si lascia un solco, e quel solco poi ce lo si porta dietro, beffardo nel suo essere indelebile, geneticamente trasmissibile con una incalcolabile varianza, qualcosa – forse finalmente – di incorreggibile.

Commenti

Post popolari in questo blog

L'alba sulla mietitura: operazione nostalgia o ritorno di fiamma?

Intermezzo: i sad boys di Sally Rooney

Siamo tutti usciti da Delitto e Castigo, anche quando non lo sappiamo (soprattutto quando non lo sappiamo)