Una campana nella campana di vetro: Trust, di Hernan Diaz
Trust, Hernan Diaz
Feltrinelli editore – traduzione di Ada Arduini
08-29/24
Trust [noun] – 1: firm belief or confidence in the honesty, integrity, reliability of another person/thing; responsibility or obligation resulting from this; keeping, care, custody.
2: an arrangement by which property is put under the ownership and control of a person (trustee) who bears the responsibility of administering it for the benefit of another (beneficiary)
3: industrial or business combination, in which management and control of the member corporations are vested in a board of trustees, who are thus able to control a market.
Ogni volta che comincio una frase su “Trust” e scrivo “è un romanzo che” mi blocco, finisco per cancellare. Perché la verità è che Trust non è un romanzo. O meglio, non è solo un romanzo e non è un romanzo solo. Trust è una brillantissima operazione metaletteraria su come si costruiscono, strutturalmente e non, i romanzi, ma anche gli imperi e le colonne umane ed architettoniche che li sorreggono. È anche intessuto di un simbolismo raffinato, non superficiale, stratificato su più livelli e chiavi di lettura. Hernan Diaz mescola il diario, la saga famigliare (e mi perdoneranno gli amanti del genere se questo ha raffreddato i miei entusiasmi, almeno all’inizio), la biografia, il diario – di più, confonde le voci, sfalza i piani temporali, gioca con le suggestioni, si scrolla di dosso le etichette e, sì, ci vince anche un Pulitzer. Meritatissimo, direi.
Quando lo chiudi ti sembra di avere il cuore un po’ gonfio, e poteva essere facile strafare con la tensione narrativa, far esplodere la bolla in faccia al lettore. Cadere nell’idealizzazione sul cui filo tutta la storia sembra camminare, quasi da sonnambula – Mildred la delicata, la morbida, la docile. Mildred e i fiori, la musica, ma attenzione, la musica da camera, la musica quella semplice, che non sembri troppo curiosa, che non esca dal tracciato. Mildred e la filantropia, le biblioteche, una Mildred da trasformare in una fondazione (che poi probabilmente in inglese sarebbe proprio Trust) e in un museo, ma a porte chiuse, sottovoce. Mildred come una storia da raccontare ma con prudenza, e soprattutto da raccontarsi fino a crederci per davvero, perché tanta lucidità è insopportabile, tanta lucidità è per forza affilata, ci si fa male.
E gli Andrew – e tutto il mondo degli Andrew ancora per un bel po’ a venire – non è pronto per farlo.
C’è sempre un vuoto tra ciò che si vuole raccontare e la sua rappresentazione sulla pagina. È lo spazio abitato dal battere sui tasti di una macchina da scrivere, è il presente che scivola inesorabilmente, difficile da afferrare, mentre chi scrive cerca di metterlo in parole – un occhio e un orecchio al futuro – e ci riesce solo quando è già passato. È il vuoto tra una quotazione e il momento in cui viene trascritta e diventa prezzo, la bolla d’aria in cui a deflagrare sono i sogni e le ambizioni di un’intera nazione e, insieme a lei, di un uomo che a fine lettura non credo si possa davvero dire di aver inquadrato. A proposito di raccontarsela, forse per una sorta di contrappasso.
Una campana che suona in una campana di vetro che rumore fa, se nessuno la sente?
[Quello che nessuno si aspetta, quello che ciascuno si immagina]
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