Da Medea a Medée. La mia prima Prima

Euripide, Seneca. Grillparzer. Alvaro. Christa Wolf. Con Medea si misurano qualcosa come duemilaquattrocento anni di cultura: ritornano, affascinati, turbati, a tratti con un po' di compassione, a volte con una sorta di sacro terrore. Tornano su carta, su schermo, in scena, con quella ricorsività inevitabile e insondabile dei classici, a spiazzare non per la speranza di un esito diverso, ma per l'universalità di quell'esito e di tutto ciò che ci trascina verso di esso.




Forse, ogni volta è un po' a sé, ma questa è speciale. Questa è la mia prima Medèe — la mia prima Prima, lasciatemelo dire — incorniciata dal sipario del Teatro alla Scala, cuore pulsante di una trasposizione moderna, personale, quasi provocatoria nelle scelte minimal-chic di scenografia e costumi.

La versione in calendario per la stagione lirica 2024 porta il nome del regista Damiano Michieletto, che fa propria la via tracciata da Luigi Cherubini – un italiano che la musicò secondo gli stilemi dell’opéra-comique, con i dialoghi recitati.
Ci toglie un po’ il terreno sotto i piedi, la messa in scena, ci spezza in quel modo indefinibile ed eterno che rende classico un classico: in un’ensemble bon ton pastello-vestita, l’unica fuori posto è questa Medea moderna, scomposta, con il suo abbigliamento un po’ grunge. Niente capitelli, niente fiaccole, non ci sono cerchi d’oro tra i capelli: nulla che rimandi alla grecità – il taglio geometrico di un palazzo squadrato, scandito dalle luci che creano campiture di colore, linee pulite per stanze-confino, porte che si dischiudono su una tragedia (video)annunciata.

Tolto ogni riferimento mitologico-temporale, Medée è la tragedia moderna di ogni famiglia che si sgretola, di ogni guerra che si fa guerriglia senza quartiere – figuriamoci quando si consuma tra una camera da letto e un soggiorno. È la voce – il sussurro – dei grandi dimenticati dalla letteratura, i figli senza nome di Medea e Giasone, che a tratti si interrogano sulle contraddizioni degli adulti e a tratti riescono, invece, a disegnare i contorni della realtà con la lucidità disarmata e disarmante dell’infanzia, un mormorare che sa di buio e di mani chiuse a coppa tra le labbra e le orecchie, di segreti e di regali non chiesti, non voluti, di amori non (con)trattabili nemmeno in nome del male minore. Non credo che avrebbe funzionato altrettanto in una lingua priva dell’eleganza graffiata del francese, per inciso: un’operazione colta, certamente, a richiamare i recitati di Cherubini, ma anche capace di generare un profondo impatto emotivo.

È una Medea umanissima – vicina, per certi versi, a un’altra Medea italiana, quella di Corrado Alvaro: schiva, vulnerabile, meno solenne ma più universale della creatura misteriosa e oscura di Euripide e Seneca, poco più che umana, poco meno che divina. È una reietta, una donna abbandonata, finanche una strega: emblematica la scena in cui il coro – che per la prima parte della tragedia ricorda i toni educatamente didascalici degli invitati a un matrimonio – raccoglie ai suoi piedi le fascine di un rogo che per poco non si consuma.

Non ancora, almeno.


Se la Medea di Grillparzer era – anche – la tragedia di Glauce, che qui si chiama Dircè, il suo comparire in scena per prima non basta a concederle nulla di più dello spazio di una comprimaria, lasciando tuttavia intuire l’incomunicabilità stridente che interviene quando del nucleo famigliare non rimane che un guscio: più che una famiglia allargata, una famiglia allungata, distorta sino a occupare territori che non le competono, che Medea rivendica con la grezza violenza di una scritta sul muro. Lo stesso muro in cui ad allungarsi è una crepa, forse più una faglia – ancora una volta, un limen che non ha bisogno del dis- (o del sovra-) umano.

Nessun pilastro è portante, nessuna casa è sicura, non quando diventa teatro – in verbis – di scontro e di ricatto: ogni cosa ritenuta solida si sgretola, e non c’è nulla di letterario o di oracolare, nessuna volontà superiore, nessun deus ex machina – lasciamo i draghi a Euripide – perché non c’è un reale motivo, non è su questo che si accapigliano Jason, Medée, Dircè, non è questo lo spettacolo a cui assiste un coro che sul finale ha qualcosa del morboso pubblico della cronaca nera, non è lealtà e non è destino, è scuotimento, crollo, terremoto, ed è di tutti e di nessuno, qualsiasi cosa si fischi a sipario sceso.

Chi non ha peccato, dopotutto, scagli la prima pietra.


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