L'idiota, Elif Batuman

🇺🇸 • L'idiota, Elif Batuman
Einaudi editore – Traduzione di M. Testa
06/23



In russo esistono due verbi per ogni azione: perfettivo e imperfettivo. Azioni puntuali, o concluse, e azioni abituali, ancora in corso. Semplifica i tempi, il russo, ma sembra tenere al fatto che ogni verbo abbia il suo aspetto. Forse questo è tra i motivi, mi dico ogni tanto, per i quali alcune storie potevano essere raccontate solo da russi. Per i quali banalmente sappiamo riconoscere un romanzo russo senza guardarne la copertina.

Batuman ci gioca sin dal titolo: impossibile non pensare a quellʼaltro Idiota, al suo essere pulito e un poʼ naïve, alla sua formazione sentimentale e alla sua disgregata identità da esule – non è esule Selin, non è esule Ivan, eppure non sono mai pienamente di o in un luogo, e forse anche per questo fanno della lingua un filtro, uno strumento e un metro. La strada per la scrittura è obliqua, passa per paesi, parole e persone. Se fosse così anche la strada per innamorarsi? Se ci si innamorasse sempre in una lingua straniera?

Che poi, a innamorarsi è Selin, che idiota in senso comune non lo è per nulla. Mi è piaciuta tanto, questa protagonista – mi ha ricordato cosa si prova a essere una ragazza strana e a innamorarsi, a percepire che ti stai facendo davvero troppe domande. Sentirsi indietro rispetto a tutti senza afferrare questa idea di linearità del tempo e della vita – bere, innamorarsi, avere una vita sessuale – semplicemente perché ci si muove in maniera obliqua, forse addirittura circolare.

Perché ci si muove per storie – le storie degli altri, quando ancora non abbiamo idea di come si scriva la nostra, le storie degli altri che arrivano, diversamente da quanto accade in turco, senza alcun segnale: prive del suffisso -miş, da un punto totalmente esterno che non potremmo mai proiettare o immaginare: sono le storie dellʼinfanzia, rese possibili solo da unʼirripetibile alchimia tra meraviglia e ignoranza; è il margine per lʼincredulità, lo sconcerto con cui accogliamo le storie più assurde e sotto cui vibra ciò che le rende memorabili. E divertenti.

Poi ci sono le pagine che saltiamo – che salteremmo volentieri – per arrivare già a conoscere la storia. Cʼè il rischio del conflitto. Cʼè dire “noi” e non capire se ci si sente in torto o in debito, forse a seconda del grado in cui ci apriamo allʼaltro – un confine, un Paese, una lingua, un primo amore. “Un ungherese di un metro e novanta che fissa chiunque come se stesse cercando di leggergli nel profondo dell'anima, e tu dici che gli somigliano tutti”. Come se ci fosse un Ivan in ogni stanza del mondo.

E ognuno racconta, e lo aggiunge, alla fine. Miş. Anche senza saperlo. Forse dipende solo da quanto chi ascolta è bravo a riconoscerlo – costruire una narrazione della propria vita è una sicurezza, è memoria, è casualità, è estetica, ma è anche privilegio – possiamo andare a cercarcela, la nostra storia. Andare a cercarcela per quanto sia dispersa, qui addiritrura frammentata per mezza Europa in una sorta di Grand Tour sentimentale decentrato verso Est: l'Ungheria è il posto in cui la storia europea e quella ottomana hanno lasciato tracce di conflitto e di coesistenza, un coacervo che ricorda un poʼ lʼEsperanto – eccole, ancora le lingue. E poi, di nuovo, le lingue come bussola: il posto in cui ogni parola conosce ed è conosciuta da Ivan più di quanto possa mai fare Selin.

Lo descrivono con la (semplicistica) etichetta di “dark academia”, ma “Lʼidiota” è un romanzo di formazione disgregato e disgregante, di una modernità sottocutanea e trasversale, è una storia metalinguistica, forse addirittura è metascrittura: un infinito istante di tazzine che vibrano al sole, quel che ti raccontano dellʼestate, della notte e della vita, delle storie in cui facciamo da comparsa o scivoliamo sul fondale, dellʼindecisione.

Ma, dopotutto, questa è solo la mia lettura. 

Miş.


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