Respira, Joyce Carol Oates
🇺🇸 •Respira, Joyce Carol Oates
Editore La Nave di Teseo – Traduzione di C. Prosperi
02/23
Non lo so come la affrontino la perdita le persone coraggiose. So che, sebbene la mia non somigliasse neanche lontanamente a quella di Michaela, ho intuito che quella ordinata faccenda delle fasi presuppone una linearità del tempo che Oates smembra fin da subito.
Tempo al tempo – il tempo che non ha (più) (ancora) (avuto) – è una delle frasi che ritornano, ma cosa accade se continuiamo a ingozzare il tempo di se stesso? Non finisce forse per cannibalizzarsi?
Oates tira un filo da un gomitolo senza curarsi di come districarlo, e così rimane: una storia di frontiera, di eremitaggio e di confinamento, una storia occulta, sinistra e sanguigna in cui non una casa ma unʼabitazione si lascia infestare da numi tutelari maligni, δαίμων con gli artigli, ibride creature di soglia, crepuscolari entità ponte. La narrazione post mortem abbraccia un tempo non fluido ma torrido, dai contorni liquefatti come in un quadro di Dalì: una dislocazione spazio-temporale che si traduce in una lingua scarna che cerca di popolarsi di parentesi, una lingua guardinga, sorvegliata e che sorveglia. La perdita è anche esplorazione territoriale di tutti quei luoghi liminali, ove il confine si fa più sottile: lui è già altrove, ma lei non può andarsene, disormeggiata. Da quel momento in poi, ogni posto sarà un posto sbagliato.
In “Acqua Salata”, Andrews dice che il linguaggio è il posto dove mettiamo ciò che sentiamo, e se Michaela con le parole e la memoria ci lavora, si potrebbe parlare di valore terapeutico della scrittura, e sarebbe un bel sollievo. Almeno una tregua. E invece no, perché la memoria, per Oates, è un infestante, non importa quanto disperatamente Michaela si domandi chi siamo – se esistiamo – quando non abbiamo nessuno a cui raccontarci, che è un po' come dire nessuno ad amarci.
Più che terapia, il memoir di Michaela è nido per la sua mania: quando non riesce a concepire l'idea di accostarsi a un finale, lei tira ancora il filo. Racconta, racconta. Riracconta. Si aggrappa all'idea di non avere ancora concluso, sforzandosi di non precipitare nel fosso tra indicativo presente e indicativo futuro. Ma Orfeo ed Euridice ci insegnano da millenni che l'amore non è la luce in fondo al claustrofobico tunnel della perdita. Quello, se mai, è un punto luminoso come un ago intraosseo, una rottura, una frattura cranica tra il reale e un regno ctonio che ci è precluso, ora come allora. La finissima operazione intellettuale di Oates è straziante, ed è una fatica arrivarci – il libro lo si divora, ma col fiato corto – proprio perché è una catabasi, non una risalita. Orfeo ed Euridice al contrario. La parola più difficile non è ti amo, scusami. Respira. La parola più difficile, la parola impossibile, è aspettami. Nessun posto è l'habitat adatto agli indicativi presenti senza tempo.
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