Rumore bianco, Don DeLillo
Rumore bianco, Don DeLillo
Einaudi Editore – traduzione Mario Biondi
05/23
La sensazione è quella di osservare i resti di uno spettacolare incidente stradale dal lato sicuro di una carreggiata paralizzata: qualcosa da raccontare, ma anche una spossante ossessione per il disastro sfiorato, un video in slow motion, un po’ rimpianto e un po’ sollievo, da un punto di vista privilegiato.
Rumore bianco è un libro che ti cola dentro – forse, piuttosto, un libro che inali lentamente – a prescindere che tu lo voglia o meno. Uno dei migliori esempi di quello che tento di spiegare quando dico che parlare in termini di piacere o non piacere è più che riduttivo, totalmente inadeguato: è un’opera geniale e soffocante, un bombardamento di stimoli che cade nel silenzio attonito dopo un’esplosione. O uno spettacolo pirotecnico. Forse è uguale: il timore reverenziale della catastrofe fonde non solo i confini tra sacro e profano, ma anche tra esaltazione e uno stato di anestesia. Ti cola dentro, dunque, e si trascina via un senso di irrequietezza, la certezza di non aver afferrato tutto: il mondo, lo dice lui stesso, è pieno di significati abbandonati, e qui quasi tutti passano per le categorie dell’accumulo, della memoria e del discorso.
Quella che DeLillo apre con una processione cinematografica – sembra davvero di assistere agli opening credits di un film mentre station wagon e coperture assicurative sfilano compatte, salde e americanissime – è una società bulimica e abulica, capziosa e chiusa nell’incomunicabilità, che rifugge e corteggia la morte e lo scontro. Una società che tende in maniera spasmodica all’accumulo e all’espansione, fa scorta per appagare una paura che è già fame nell’illusione di mostrarsi più grossi delle cifre che si spendono. O del proprio nome, costruito ad arte per stendersi come una seconda pelle, appiccicosa ed elusiva, sui contorni esposti di un corpo da sottoporre a un check up dietro l’altro, senza mai fidarsi del tutto di specialisti depositari di una medicina che pare attingere dalla metafisica quanto dalla tecnologia tutte le componenti più incomprensibili. Forse anche loro, come Jack – J. A. K. – non hanno gli strumenti per riparare ciò che si rompe, forse anche a loro viene messa in mano una pistola carica.
Smettere di obbedire all’accumulo compulsivo, gettare via, è un esito concepibile solo a seguito di una catastrofe, e ciò che gettiamo diventa oggetto di una nuova disperata voracità, la frenesia che spinge Jack a rovistare nella spazzatura: la speranza di avere una risposta – di poter trovare, seppur corrotta, forse miniaturizzata – quella che crede la soluzione al suo male lo porta a immergere le mani tra le rovine di ciò che ha comperato “con abbandono incurante”, “per bisogni immediati ed eventualità remote”. In ultima analisi, per il mero piacere di farlo. Di avere il potere di farlo, un compiacimento quasi autoerotico.
È un accrescimento fisico e interiore, è un fenomeno individuale che si traduce in una dimensione collettiva che darà alla dignitosa isteria lo stesso carattere pandemico della scena iniziale: non importa che sia un allarme primordiale o la boriosa sicurezza di avere il diritto a occupare una posizione agiata – la nenia di anime morte che pervade il primo capitolo –, farsi folla è solo un modo diverso di fare scorta, di tentare di sottrarsi alla morte. L’individualità rende vulnerabili, persino nelle sue sfumature più simili all’amore: il continuo dibattere su chi debba morire per primo, tra Jack e la moglie, non ha nulla della domesticità e del calore familiare – è un odore di vite infelici che si fa sempre più forte. Rimanere soli terrorizza. Soli si è aggredibili. Soli si corrono rischi di cui persino i bambini sono consapevoli. Soli si regredisce, si rimpicciolisce: a letto, Jack non è più l’amante ma il bambino, rannicchiato tra i seni di una donna che si illude possa cullarlo – lei, lui, non importa su chi gravi la condanna, l’importante è mettere a tacere il rumore bianco, ossessivo, almeno per un po’.
Il rumore, appunto. Quella uditiva è una connotazione fortemente presente nel romanzo – DeLillo piega il linguaggio regalandoci espressioni dalla potenza evocativa quasi allarmante: un fragore di protezione civile mesozoico, una raucedine aggressiva e brutale che fa vibrare i muri – ma che travalica, come tutto il testo, la dimensione letterale per assumere carattere simbolico: è come se ci fosse una sorta di fastidio di fondo – per me dato dal tono iperbolico, sfiancante, esagerato di certi passaggi, soprattutto scambi dialogici – che impedisce davvero di entrare nel testo almeno fino alla seconda parte. Un ronzio elettrico, una sorta di acufene mentale che lui chiama svanimento cerebrale e motiva con il costante bombardamento di notizie e di informazioni, con l’assuefazione alla morte che ci impedisce di capire di averne il terrore: c’è bisogno di una catastrofe, possibilmente lontana e per la quale accusare altri – un disastro stradale sulla carreggiata opposta, per esempio – per rompere l’abulia, per dare alla processione di auto un senso opposto ma sempre ordinato, disciplinato da altri.
Sarà quando l’auto di Jack si muove in solitaria, senza incolonnarsi per ordine altrui, che la miccia accesa e poi quasi smorzata deflagrerà – e lo farà a modo suo, annebbiato e grottesco, con un climax angosciante spezzato di continuo che mi ha ricordato il McEwan di Lettera a Berlino – in un’esperienza di pericolo e possibilità non universale ma individuale.
Di questo evento – segreto, suppurante – non sono spettatori televisivi: gli attori sulla scena compaiono ingigantiti dal binocolo, piuttosto che minuscoli nelle riprese di qualche reporter specializzato in catastrofi. Non c’è voce fuori campo, non ci sono interruzioni pubblicitarie. Della trasmissione su schermo l’evento conserva però l’effetto soggiogante, insieme a un’insolita stimolazione, un’esaltazione collettiva che non si cura del complesso rapporto tra l’uomo e ciò che crea (e, al contempo, è in nuce capace di portarlo alla distruzione).
Il sintomo principale di quest’intossicazione collettiva – un’overdose sistematica di panico e iperefficienza – riguarda un altro dei nuclei di senso principali, quello della memoria: chi è esposto agli effetti della nube soffre di dejà-vu, un evento di per sé non così allarmante, comune, ma inspiegabile e disorientante, quasi una labirintite della capacità mnemonica che accelera il senso di svanimento cerebrale inconsapevolmente condiviso dalla popolazione intera. Perché costruire un’isteria collettiva e un’ossessione individuale su un fenomeno così apparentemente innocuo? Perché l’unico postumo di questa spossante sbornia collettiva sono dei tramonti di una bellezza lancinante, crepuscoli come agonie – non vorremmo finissero mai, non sfociassero nel momento in cui, traditore o tradito, il sole muore. Cosa lega la nostra capacità di produrre e mantenere ricordi con la paura della morte, propulsore dell’intera vicenda in maniera più o meno manifesta? Si tratta di un meccanismo di rimozione, simile all’atto di gettare via, quindi di spogliarsi di strati protettivi? Si tratta della sensazione di perdere competenze preziose per comprendere e soggiogare un mondo in cui la tecnologia è al contempo culla di una minaccia di estinzione di massa e inarrestabile fornitrice di armi per fronteggiarla? Credo abbia più a che fare con l’idea di tempo, in realtà.
Sin dalla prima parte di Rumore Bianco, Don DeLillo dà una definizione di come si costruisce un ricordo, attraverso il discorso: parlare, sostiene, crea uno scarto tra il presente e le cose com’erano: lo spazio riservato all’ironia, alla comprensione e all’affetto divertito, strumenti attraverso i quali ci riscattiamo dal passato e caratterizzanti l’essere umano come animale emotivo. Il tema del discorso si ripropone in tutto il testo in sfumature diverse, tutte accomunate dall’essere, in varia misura, strumento di potere: il semplice conoscere una lingua disvela o preclude, a seconda del grado di padronanza, un universo di significati che nemmeno la competenza specifica riesce del tutto a compensare. Si pensi a Jack, massimo esperto di Studi Hitleriani, e al suo senso di inadeguatezza nel confrontarsi con il tedesco, così come, più avanti nel libro, sarà il gergo medico a porre una barriera tra i bisogni e le supposte risoluzioni del protagonista. Tutti, all’interno del microcosmo romanzesco, sono in qualche misura insegnanti o allievi delle discipline più disparate – diverse di esse sembrano avere a che fare con la morte, più che con la vita di personaggi eccezionali, ma a questo punto non stupisce nemmeno più. Il sistema – e in questo la contemporanea società, americana e non solo, si discosta solo in maniera relativa da quella che potremmo quasi chiamare l’ucronia di Don DeLillo – ha bisogno di un discorso che lo regga, discorso che necessariamente sia espressione delle classi dominanti e pertanto veicolo di potere e umiliazione, ma non solo: nella continua confusione di sacro e profano perpetrata dall’autore insegnare è una vocazione. Il carattere rassicurante delle previsioni del tempo. La seducente vaghezza degli slogan. Alla gente piace che le cose in cui crede vengano confermate, per questo non smette di sedersi e ascoltare lezioni, anche se poi non sa come ribattere ai sofismi dell’adolescente seduto al posto del passeggero.
Sono estenuanti, i botta e risposta – più che veri dialoghi – in cui ogni aspetto della realtà viene sventrato e sottoposto a un esame autoptico senza altre soluzioni che una resa esasperata che ha senso solo in tempo di pace – già, perché in uno stato di crisi ognuno si mette in dubbio, sa quasi per certo, quasi, che la verità la hanno gli altri. La corsia più veloce è sempre quella in cui non sei tu.
Nell’altra carreggiata, lenti, portano via le carcasse incidentate.
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