Orizzonte Perduto, James Hilton

🇳🇵 •Orizzonte perduto, James Hilton
Traduzione di Simona Modica – Editore Sellerio
01-02/23


La prima volta che ho visto Into the Wild, e per parecchi anni a venire, io non l'ho capito. Cioè, proprio mi innervosiva l'idea di lasciare gli affetti, di ricercare una libertà assoluta in solitaria – non in solitudine – di ribellarsi a un sistema che, con tutti i suoi difetti, ha generato ciò che siamo e le persone che amiamo. Ho detestato Frodo, al termine de Il ritorno del Re, quando volta le spalle agli amici che lo hanno seguito in capo al mondo, e alla casa che ha ritrovato a caro prezzo, per imbarcarsi in una terra dai contorni vaghi e privi di quella qualità indefinibile che radica a terra. Ecco, io ad Alex Supertramp e anche a Frodo devo delle scuse, e ci arrivo attraverso Conway e la sua Shangri-la parecchi anni in ritardo, ma se c'è una cosa che questo immaginario soggiorno in Tibet mi ha lasciato è l'idea che il tempo non sia esattamente come siamo abituati a percepirlo. Quindi lo chiamerò semplicemente il momento giusto, un po' come quello in cui una montagna da ottomila metri compare nel ritaglio del finestrino di un aereo: uno spettacolo radioso e assoluto, a suo modo conciliante e severo. A tratti mostruoso.

Lʼattitudine allʼosservazione di Conway — a tratti indolenza, a tratti una vera e propria aspirazione che mi ricorda lʼatarassia classica — è una sorta di biglietto per il miglior posto finestrino che potessi immaginare per un viaggio irreale e impalpabile come “Orizzonte perduto”. È una disposizione mentale a lasciarsi colpire, una curiosità istintiva, un rispetto che di tanto in tanto fa sconfinare l'accettazione nel fatalismo. Ha persino qualcosa di mistico, sebbene lui per primo, uomo d'azione, si definisca scettico: Conway è reduce e ramingo (ma mai fuggiasco), contempla il mondo libero da ogni pressione, anche quelle affettive, senza che questo significhi rifuggere la problematizzazione del reale – anzi, è il primo a mettere in discussione la visione dei suoi accidentali compagni di viaggio, sempre con una disinvoltura accattivante. Com'era? Spassionato. Salvo poi fare, di cuore, la rinuncia più grande di tutte.

All'inizio del libro, chi conosce Conway si professa stupito: c'erano tutti i presupposti perché un tipo tanto brillante si facesse strada. Beʼ, io ci vedo uno sguardo quasi ironicamente preveggente, perché ciò che diventa, viandante tra due mondi, non è che la strada stessa, appunto. 

Nè passato nè futuro soffocano le visioni – petali su una rupe rocciosa, un tè aromatico, ombrelli di foglie e appena un filo di fumo – di Shangri-la, rendendolo un luogo unico, libero dagli insensati condizionamenti del vissuto ma anche da un'irrealistica, sterile proiezione futura. Solo legami di seta: la bellezza è fragile, e unicamente dove la fragilità è apprezzata, compresa e protetta può germogliare.

Io non lo so se c'è una Shangri-la accessibile – una terra che difende con gentilezza la sua alterità e il suo diritto a esistere, allargando le maglie del tempo – anche senza sorvolare i continenti, ma (al di là del finale che un po' spezza il cuore) mi piace pensarla filtrata da un humor molto britannico: a credere a tutto troppo facilmente si sbaglia, ma a credere troppo poco ci si annoia.

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