Brevemente risplendiamo sulla Terra, Ocean Wuong
🇺🇸 • Brevemente risplendiamo sulla terra, Ocean Vuong
La Nave di Teseo Editore – Traduzione di Claudia Durastanti
01/23
Esiste un maschile gentile.
Esiste un maschile gentile, e spezzato, e sincero, che si racconta senza pelle, fino alle viscere, guardando in basso. La memoria è femmina, e forse anche per questo Little Dog scrive una lunghissima lettera in un codice indecifrabile proprio a sua madre, libero di essere preda proprio in quanto orfano di lingua, collegato una volta, per sempre e poi mai più da quella prima virgola di carne, la volontà di dire ancora.
“Due lingue si cancellano a vicenda, inventandone una terza”, che passa dalle mani e dal sangue, dalle macchie sulla pelle e poi dalla carta, e infatti alla fine Rose si chiede come farà a leggere, traballante e malmessa, come se si leggesse con le ossa e con il fegato. Ciò che è bello magari non lo sai nominare, ma sei in grado di riconoscerlo: la memoria non è una scelta, come vorrebbe Rose, come forse Lan sa già. La memoria è inondazione. È massaggiare un arto fantasma. È una questione di onde, e forse per questo fare memoria è minare dall'interno la struttura del romanzo, farlo letteralmente esplodere e, con mani tremanti, al massimo rimettere insieme i fogli perché combacino. Come i lembi di una ferita che domandano all'altra parte dove sei stata.
Il tempo della memoria è equoreo e inaffidabile, magamatico, instabile – è impronta e non strada, si lascia mutare e muta a sua volta annodandosi al tempo che si fa soggettivo, capace di balzi, di oblii e di ralenti insensati, oggetto e soggetto e non più solo strumento della materia narrata. Raccontare se stessi – raccontare una vita – è passare le dita su cerchi concentrici di materia viva, come fossimo alberi da leggere in sezione, (pro)tesi tra rami e radici finché un fulmine non squarcia il cielo dove stavi tendendo un aquilone.
È farsi interruttore, a costo di farsi folgorare dalla corrente. Farsi onda per guardare l'altro sbandare, per il mero gusto di strattonare il filo ignorando il fatto che finisci per sbandare anche tu.
Ho la sensazione che Vuong abbia inventato una lingua della memoria, e non so esattamente spiegarla perché non destruttura la sintassi né piega la punteggiatura come altri fanno in maniera più estrema (e forse per questo ha funzionato di più). Una lingua che somiglia un po' a quella peculiarità del vietnamita dove la parola per mancanza è uguale a quella per ricordo e così ti manco? può diventare ti ricordi di me?
– mi manchi più di quanto io riesca a ricordarti.
Perché forse è davvero così: raccontare la memoria è procedere per vuoti, è raccontare perdita e persistenza, è una notte torrida e appiccicosa, è di nuovo vento e scorrere di fiume, è l'orlo del precipizio oltre il quale vedi sparire chi ami e salti comunque. È la luce dei fari. È una cicatrice sul collo, un altro interruttore, è polvere e sangue, è corpo, è fare arte di tutto questo.
Non un'opera che duri nel tempo ma l'idea di “preservare i nostri corpi che respirano e non vengono raccontati dentro al tempo”, una cosa semplicissima che riesce a polverizzarti, è paratassi, è aritmia del pensiero, perché si legge anche con i polsi e i polmoni, secondo me, e questa “ferita aperta al centro dell'America” Vuong mi sa che l'ha proprio stracciata con la semplicità di bufali e farfalle e di un buco nel petto che finisci per sentire anche tu.
Fammi male per bene.
“Dal vento ho imparato una sintassi dell'avanzare, come muovermi attraverso gli ostacoli avvolgendomi a loro. Puoi arrivare fino a casa in questo modo.”
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