Le Otto Montagne, Paolo Cognetti
Le otto montagne, Paolo Cognetti
Einaudi Editore
01/23
Il primissimo tatuaggio che ho voluto è il profilo delle montagne della mia infanzia. Lo chiamavo “il mio orizzonte” e lo volevo lì dove nasce il respiro: all'altezza dei polmoni, lato sinistro. È stato più o meno nello stesso periodo che ho letto per la prima volta “Le otto montagne”, cinque anni fa: da allora è rimasto su una mensola, esattamente come il disegno sul mio costato, colonna portante e cassa di risonanza dei miei irrisolti e dei miei perché.
Non ho mai sentito di appartenere a un posto da che ricordi, ma ci ho provato forte. E mai come con la montagna. Per un po' ci ho creduto davvero: come il padre di Pietro, a testa bassa e puntando alla cima, il respiro tra i denti e quel crogiolarsi nell'incomprensibilità che gli dava proprio l'idea di somigliare a un posto diverso, possibilmente poco accessibile, scosceso ed elusivo. Se uno va a stare in alto, è perché in basso non lo lasciano in pace eccetera.
Era un tentativo. Ero convinta che solo la montagna – nell'esatto profilo del parabrezza della mia infanzia – potesse ricordarmi chi ero. E dopotutto aveva un suo senso, ché da bambina quando il parabrezza diventava lunotto ed era il momento di tornare in pianura – come per Pietro, anche per me era una montagna estiva – piangevo per tutta l'A26. Ero convinta che fosse l'unico posto cui potessi appartenere, perché guardare in alto era sempre stato naturale, le cime innevate in mattine di febbraio grigie di smog, a sorpresa in un maggio piovoso, naturale e più facile che guardarsi dentro. Avevo una specie di bussola che nei miei tragitti abituali mi portava a sapere come alzare la testa per trovare il Monte Rosa.
Ma non era quella la risposta, e ci sono arrivata tardi: non appartengo alla montagna, se non per mera ostinazione, non le appartengo e la conosco veramente molto poco. Ho cominciato a conoscerla davvero, mi sembra, quando alla montagna ho tolto quel profilo scolpito nella pelle e nel parabrezza, quando l'ho vista diversa, quando ho imparato a rallentare, a condividerla e a salutarla. Quando, dopo cinque anni, ho riascoltato il romanzo di Cognetti, mi è sembrato di capirlo un po' di più: di sentire Pietro, Bruno, Lara. Di ampliare lo sguardo su una vallata che non era più solo la mia.
“Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, pensai, allora il passato è l'acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c'è più niente per te, mentre il futuro è l 'acqua che scende dall'alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro a monte.”
Così questa storia, che è un tracciato intenso e sofferto di costruzione, destrutturazione e rifondazione, di amicizia, di perdita e di quel tipo di perdono mai detto, di sé e degli altri, che ha qualcosa del rimpianto e qualcosa della pace, è stata libera di arrivarmi davvero.
“Può anche apparirti del tutto diverso, da adulto, un posto che amavi da ragazzino, e rivelarsi una delusione; oppure può ricordarti quello che non sei più e metterti addosso una gran tristezza.”
Oppure sollievo.
Non mi serve credere che solo in quel posto si respiri. Non mi serve aggrapparmi all'idea di appartenere. In montagna ci vado molto poco e ho imparato a dire che faccio fatica e che di sicuro a quattromila ci arriverò solo in cabinovia, e va bene così. Mi stupisco di più. Mi sembra di lasciarla più libera. Non lo so se sono otto o ottomila o chissà. So che finalmente, dopo tanti altri titoli, dopo tanto girarci intorno, io e Cognetti abbiamo davvero fatto pace.
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