Latte Sangue Fuoco
🇺🇸 •Latte sangue fuoco, Dentiel W. Monitz
NN Editore – Traduzione di G. Guerzoni
03/23
Si annega sempre in qualcosa che ci annacqua il sangue.
In italiano diciamo “il sangue non è acqua”, e non chiariamo né cos'altro sia né perché. Ci basta.
In inglese, in tre parole, suona così: “thicker than water”, che è anche il titolo di quello che forse è il mio racconto di Monitz preferito. E in questa raccolta ho trovato una soluzione per nulla rassicurante, una miscela di turbamenti semiliquidi che ha qualcosa dell'acqua, ha molto del latte e ancora di più del sangue. Ha tracce di cenere, di ossa e di torta e di mare e un fondo dolciastro e nauseante di Coca e Jack.
Di latte, di sangue e di fuoco è fatto il corpo delle donne e anche la loro memoria. Donne che sono anelli di una catena che ogni tanto incappa in unʼimperfezione intenzionale, donne che si interrogano e si rifiutano, madri e figlie degli stessi sbagli e del terrore di ripeterli.
Mettere in discussione la figura materna, o la maternità in generale, è interrogarsi sulla vita prima e dopo di sé. È chiedersi “e se” a costo di saltare dai tetti e cullare vendetta, è addestrarsi a essere invincibili ed è il castigo per i crimini delle madri contro le figlie, ma anche viceversa, perché oscilliamo tra l'essere inavvertitamente spietate e deliberatamente crudeli, e questo è forse il primo libro che mi ha fatto pensare in prima plurale.
In un “noi” femminile io non ho mai creduto, però credo a ciascuno di questi anelli – di questi “io” – e mi chiedo cosa ci sia nei meccanismi difensivi della memoria che la rende così selettiva, così riprogrammabile e prevedibile. Credo alle soglie, a quei passaggi tremendi e indifesi che somigliano all'estate di Stephen King e a una camminata lungo una ferrovia o un canale, una continua, deliberata sfida a perdere l'equilibrio con una fiducia, un coraggio – una ferocia – irripetibili. Credo ai viaggi in macchina e alla sincerità degli abitacoli, e alle stellate, e credo al modo in cui l'acqua salata sa di panico e di verità, alla curiosità macabra dell'età in cui il gioco non è più gioco e l'orrore non è ancora orrore. Credo al potere enorme che i ragazzini non sono consapevoli di avere quando decidono cosa fare di ciò che sanno, credo nella pretesa di innocenza e nell'illusione di essere già adulti. Credo che ci sia una tentazione cannibale nel guardare crescere un figlio, un'impulso che non è cattiveria e non è negligenza: ha a che fare col latte, il latte che “fa bene alle ossa” quando ancora sono malleabili, adattabili a un mondo di mani pesanti e di affetto maldestro e di canotti persi di vista solo per un momento. Credo nel potere di portarsi via una parola alla volta, fosse anche solo per noia, e lastricarne la strada per andarsene.
Credo ai racconti, alla loro capacità tutt'altro che scontata di rinfrescarci la memoria su “stupori e tremori” (cit.) che tendiamo a sovrascrivere, credo che di dire “anch'io” a volte quasi non ci sentiamo in diritto, ma poi credo anche che nei libri cerchiamo così spesso quell' “anch'io” che chi decide di scriverli non può non saperlo.
Deliberatamente, salta nel vuoto per scoprire com'è.
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