Una vita come tante, Hanya Yanagihara

Una vita come tante, Hanya Yanagihara
Sellerio Editore – Traduzione di Luca Briasco
Ottobre 2022

Mi capita spesso, soprattutto con libri dalla visibilità sovraesposta, di domandarmi cosa possa aggiungere a tutto quello che è stato detto e ridetto: lettori più competenti, più brillanti, più profondi (e non perennemente in ritardo) avranno sicuramente minato ogni possibile criptosignificato da quelle pagine. Mica devo per forza arrivare io a dire la mia.
Poi c’è “Una vita come tante”, su cui ho letto e visto davvero un sacco di cose, bellissime e bruttissime. E, nonostante questo, più ci penso più mi chiedo se sia lo stesso libro che ho letto io.

Mi spiego. A me questo libro mi ha davvero risucchiato. E sì, il pleonasmo ce lo lascio, perché è indicativo dello stato di confusione, di nausea, di euforia, di dolcezza, di rabbia e di ammirazione in cui sono precipitata durante la lettura. C’è uno scatto che mi succede di avvertire con i libri molto lunghi che ho amato tanto: le prime duecento pagine o giù di lì è un continuo girarsi intorno. Prendere le misure. Studiarsi. Capire dove mi sta portando e se voglio fidarmi del fatto che sia un posto dove voglio andare. E sì, sto scrivendo questo post un po’ allo stesso modo. Non perché voglia convincervi a tutti i costi a leggere “Una vita come tante” o a farvelo andare giù se non vi è piaciuto. Io dei libri che amo al punto da avere le vertigini sono anche parecchio gelosa.

Dicevo, lo scatto. Arrivi verso le tre, quattrocento pagine e passi dalla fase in cui devi annotarti chi è, tra Willem e Malcolm, quello che fatica a trovare un’appartenenza in un mondo fin troppo comodo, e chi quello che vive di e attraverso le distanze, alla fase in cui JB ti fa incazzare e chiudi il libro o a quella dove scrivi in gigante “Boys in the Hood” sul quadernino come se fossero amici tuoi. Arrivi a settecento e ti chiedi come si faccia a scrivere così, sovvertendo peraltro l’idea della focalizzazione unica, sovvertendo i tempi verbali, il patto tra il lettore e la terza persona singolare e avendo ancora un buon bagaglio di segreti da svelare, solo che ormai li conosci abbastanza da capire cosa abbia  senso per chiunque – come ognuno di loro gestisca il delicato equilibrio tra fiducia e autodifesa, tra bisogno dell’altro e desiderio di possesso.

E poi… Be’, e poi sono novecento, e hai paura del momento in cui finirà, ma ormai è tardi.

Era una lettera d’amore, un documento, una saga, e soprattutto era profondamente suo”.


Un Lied, come quelli che di tanto in tanto canta Jude, e solo una lettera, per uno scherzo neanche troppo velato, a fare la differenza da Leid (dolore): ognuno di loro persegue una qualche forma d’arte, forse in fuga da un appartamento mentale troppo stretto: “il concetto di straniamento, il distacco dal mondo, l’atto di scomparire in un luogo diverso, remoto e sicuro, l’ambivalente anelito alla fuga e alla scoperta.” E tra le scoperte quella, a volte devastante, che il talento non basta, perché studiare può passare attraverso una demolizione necessaria e quasi mai indolore. Chi non oppone resistenza, chi si lascia sbriciolare per ricostruirsi, continua a fare arte. Ciò che si perde nel processo rimane in quell’inesorabile, tragico silenzio che spesso si erige come barriera e finisce per soffocarci.
(A meno che non troviamo il nostro Lied).

Ma il silenzio è anche gentile. Il silenzio è anche adattamento, rinuncia, e poi di colpo coraggionon per essersi ricordato il motivo, ma per dimenticarlo così spesso ponte, porta e chiavi di casa. Il silenzio è domanda e risposta, ribellione e accettazione, il silenzio sono quasi millecento pagine che lasciano senza parole per la potenza della compassione, della tragedia e della gratitudine.

Persino il caustico JB saprebbe trovarci della poesia – lui, maestro e discepolo dell’autosabotaggio, capace di perseverare solo nel tentativo (vano) di costruire la peggiore immagine di sé, preserva la sua parte migliore nelle sue tele, si nutre e nutre la sua arte delle vite dei suoi amici, della poesia che non gli appartiene e dell’amore che allontana: sono canti anch’esse, canti di ammirazione, e invidia, e rimpianti e affetto che non sa esprimere altrimenti. Per quanto gli altri tre si possano sentire indefiniti, incompleti o appena abbozzati, per JB ognuno di loro ha una sfumatura precisa: è l’unico che possa parlare di “luminosità della luce” e farci sentire comunque convinti che abbia un senso.

Non leggo quasi mai risvolti, quarte di copertina, sinossi. Se mai lo faccio a lettura completa, quando fatico a staccarmi ed è un modo come un altro per rimandare il distacco. Forse ho paura che mi influenzino, quindi che funzionino troppo, ma quando funzionano troppo poco mi arrabbio, quindi non ho ancora ben capito perché. Rimane il fatto che, quando sul quaderno ho scritto “ottocentesco” non avevo letto la quarta di copertina. Aveva molto a che fare con il fatto che stessi seguendo una lezione su Dostoevskij, e mi sono ritrovata a pensare che ci fosse davvero un sacco di Sottosuolo tra quelle pagine, e un sacco di notti insonni, non bianche ma scarlatte, e ho pensato a quanto sia pazzesco che, duecento anni prima di Greene Street, c'è stato qualcuno che ha deciso che valeva la pena dare voce anche ai reietti, agli adepti dell’autosabotaggio, a chi è un po’ storto e più incline alla retromarcia che a una funzionale progressione. Qualcuno che ha fatto della letteratura il rifugio di chi scava, di chi si perde, di chi si rannicchia in un angolo e gli strumenti per affrontare quella vita, come tante o come nessuna, se li è visti portar via, a chi desidererebbe solo “una forma di conforto, qualcosa che gli appartenesse completamente, e che tenesse lontane la grandezza terrificante e l’impossibilità del mondo esterno”.

Per Jude e JB è un Sottosuolo ingombrante, popolato da un senso di colpa egualmente feroce e diversamente circuibile con mezzi più o meno eclatanti: più rassicuranti e cruenti, più veloci, quelli di JB; iene lente e inesorabili sono i demòni che assediano Jude. Eppure nessuno di loro ha scampo da quel gifted kid burnout che è certo un problema da Primissimo Mondo, ma non per questo meno affamato. Ognuno ha una propria strategia, un’arma di elezione affinata con il tempo e l’abitudine, anche quando sembra esplosiva come un pulsante che salta, e c’è così tanto senso di colpa nella loro vertiginosa libertà – la libertà di ritornare Boys in the Hood, a dispetto del tempo e delle aspettative e dei soldi e del mondo intero – destabilizzante e destabilizzata. Imparare cosa significa essere figlio con dei genitori e genitori con un figlio, frasi di una banalità che parrebbe certo scontata a chiunque non si sia mai misurato con queste pagine, con il senso di perdita, di orrore e di colpevole sollievo di Harold – tolta la paura suprema, cosa può spaventarti? – o con la caparbia ostinazione di Jude a disilludersi. Nessuno ama i propri creditori, no? Bene, Yanagihara smentisce pure questo.

A un certo punto, già verso la fine, li chiamano gli anni felici. Quelli che sono già passati, avvolti da un alone di nostalgia squattrinata. Quelli delle infinite possibilità che sogni da ragazzo e che quando finalmente ci arrivi ti costringono a viaggiare con gli occhi inchiodati al retrovisore. Quali anni felici. Sono comunque anni in cui stiamo già un po’ morendo, attimo dopo attimo, e riusciamo a essere felici da spaccare il cuore oppure ad avere tutta la paura del mondo, come se non ci fosse ieri e non ci fosse domani.

Potrei parlare di come mi abbia colpito lo stomaco in certi punti, solleticato dietro le tempie in altri – il tempo che passa e il non adattarsi alle aspettative, una famiglia, dei figli, per cosa hai una casa se non ci torni mai? – ma non basterebbe e al tempo stesso sarebbe comunque troppo, ché a tratti ho la sensazione che questo libro sia un unico filone di nervi scoperti e altre volte che mi abbia non tanto scoperchiata, quanto ribaltata all’interno e costretta a guardare in faccia un sacco di cose. Il tutto con un linguaggio pulito, ricco ma mai eccessivo, che si prende i suoi tempi, si prende la forma, si prende i segreti e i ricordi di tutti loro e si prende anche un po’ delle mie lacrime, a dirla tutta.
Non abbiamo le famiglie che meritiamo, non ricordo nemmeno chi di loro lo dica, ed è un verdetto capace di inchiodare per la molteplicità dei suoi significati. Sicuramente è in quelle prime duecento pagine, quelle in cui lo scatto non c’è ancora stato, una frase che ha il sapore del piatto – sempre lo stesso – che Malcolm ordina facendo finta di essere pieno, da mettere in mezzo e da cui ognuno si serve a modo suo: JB senza riserve, Willem solo quando lo fa qualcun altro, Jude fermandosi un pochino prima di quanto gli serva per essere davvero sazio. Poi il conto lo pagano sempre diviso quattro, qualunque cosa accada.

Mi piacciono le strutture ad anello, i cerchi che si chiudono, e mi piace tutto ciò che straripa tra un capo e l’altro. Così non c’è davvero nessun piatto da dividere, alla fine – solo Jude che impara a cucinare meglio di tutti e prova pure a insegnare – ma c’è di nuovo la storia di un salto e non lo so se sia voluto o se sia la mia solita tendenza a trovare affinità, ma a me ricorda un’altra festa e un duello di tolstoiana memoria che sancisce un altro scatto. Perché sì, ci trovo Dostoevskij ma ci trovo anche Tolstoj: l’umanità, la compassione, la profonda dolcezza e la scissione tra bisogno di contatto umano e invincibile solitudine che sono un po’ Guerra e un po’ Pace. Survival blues, per sconfinare nel Novecento. Niente più che un ritorno a casa, dove tutto è cominciato. E mi ero anche arrabbiata per un’incongruenza circa a pagina uno, assurdo. Solo che senza quell’incongruenza non avremmo avuto Lispenard Street, il salto, il duello, il primo spazio personale, e ancora Greene Street, il perenne senso di ritardo di Malcolm, che con le case ci lavora e non molla quella dei suoi, come se fosse capace di inventarne per tutti e non per sé, e Garrison, e la ristrutturazione di Willem che è un po’ una tela di Penelope – avere una casa e non andarci mai, forse perché casa è altrove? Casa è una persona? E ancora case acquisite e altri continenti, Cambridge e Tutro e il loft di JB, una campagna perduta e la penisola scandinava e un bambino seduto a guardare l’oculo del Pantheon e infiniti motel, infiniti nascondigli, l’Alhambra – buon compleanno, Willem – e i modellini, quanto mi hanno spaccato il cuore quei modellini di piccole case, piccole vite in miniatura. Ecco, mi ero ripromessa di non fare l’ennesima recensione che tirava in ballo il titolo originale, A Little Life, perché questa davvero l’abbiamo già sentita tutti. Eppure a guardare dentro uno dei modellini di Malcolm, ad accendere la luce, darei qualche anno per saper scrivere così, illuminando un pochino di vita – piccole vite – in modo che sia già quasi cicatrice.

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