Acqua salata, Jessica Andrews
🇬🇧🇮🇪 •Acqua Salata, Jessica Andrews
NN Editore – Traduzione di Silvia Rota sperti
01/23
[The city is burning
Sinking ships in the ocean
With a head full of dreams at night
Sorrow's written the story of life]
Pensavo di essere una persona da città, dice Lucy a un certo punto. Pensavo di aver bisogno di velocità e di elettricità, dell'idea di poter essere chiunque e nessuno. Reinventarmi fino a perdermi. Io una volta dicevo “sentirmi piccola in un modo che non facesse male”, ma l'unico periodo in cui ho abitato in città è stato a Torino, e da Torino mi sono portata questo libro, quindi ehi, Lucy, prenderò in prestito le tue parole per un po'. Tra l'altro, perdonami la licenza poetica che credo non ti dispiacerebbe, non stanno male con quelle di Liam Gallagher in sottofondo.
[Ain't nothing to do, but
I was digging for gold dust]
E avevo in mano altri due libri in lista da tempo, altri due libri che avrei sicuramente amato, ma una voce amica sembrava sapere che la tua Londra e la tua fuga, le tue ginocchia sbucciate e le tue sbronze e la tua storia che ha circa la stessa età della mia mi avrebbero dato non qualcosa di più – lo dice l'uomo in una di quelle notti di auto e luna, vero? – semplicemente qualcosa di diverso.
[I don't hate you
But I despise that feeling
There's nothing left for me here
You won't know if you don't go]
Jessica Andrews intreccia linee temporali e mappe tracciate a penna, treni notturni e biciclette, appartenenza e sradicamento. Comincia come un parto, preannunciando la “bellezza ferita e violenta” di Lucy e della sua Londra e poi (o prima ancora) del suo smarrimento: per riconoscersi accetta di sradicarsi, si contraddice fino a destrutturarsi – è un libro di paillettes e insieme di cose sporche, concrete, un libro dei giorni e spesso delle notti, delle domande affidate alla carta o alla luna.
L'adolescenza infiammata e affamata di Lucy a tratti somiglia alla ricerca di un altrove inaffidabile, a tratti di legami di cui si scopre insofferente e insieme dipendente, e mentre ci caliamo in quelli che somigliano ai primi anni duemila che ho conosciuto anche io, solo più rumorosi e coraggiosi, tasselli della Lucy che fa ritorno in Irlanda – la Lucy vulnerabile ed esposta, la bambina che non ha smesso di cercare il papà e di aver paura per il fratellino e di amare la mamma fino alla gelosia – diventano un po' più simili a una storia di cui lei stessa è madre e figlia in ogni momento. Ci vuole coraggio a reinventarsi in un posto dove tutti sanno chi sei e, soprattutto, di chi sei – possibile appartenere a qualcosa senza essere in suo possesso? – ma è qui che Lucy ricomincia a sentirsi fatta di corpo e ricordi, dell'impronta degli amori falliti e di quelli sempiterni, della maledizione familiare che la mette in moto, miglia su miglia e un lancinante, irrealizzabile desiderio di protezione esorcizzato divano dopo divano.
[Your life's short and most days are long now
Chain of missing links is all that's left now
No, you gotta let it go]
“Costantemente radicata e in fuga”, mossa “da un sentire astratto nel profondo della pancia”, sin dalle prime note Lucy cerca un linguaggio – lo cerca nella musica, nel corpo, nella lingua dei segni, quasi che invece della sordità di Josh fosse una sua disforia comunicativa e percettiva a muoverla irrequieta. Lo chiama, a un certo punto, “un posto dove mettere ciò che si sente”.
Il linguaggio come un posto. Ecco, questo mi è piaciuto un sacco. Ed è un linguaggio dark e poetico, millennial e musicale, è disordinato, accavalla le categorie logiche e temporali e i tu e gli io. È colore – se l'amore avesse un colore sarebbe marrone, “il colore del tabacco e del caffè, della terra, del cioccolato e del whiskey”, cose dense, stucchevoli. Cose dimenticate. Il sangue quando secca.
Ma se il linguaggio è un posto, cosa fare di quell'energia tachicardica, “quasi nicotinica” che deraglia, che chiama costantemente altrove?
[Superficial feelings
It's hard to take it easy
Underneath the red sun
Everything's electric]
È come una canzone che cerca di raccontare gli spazi tra le cose al buio, la spinta, o la crepa, che sgretola tutto e lascia intravedere un ipotetico futuro, irradiato da una sorta di sistema nervoso delle cronologie sovrapposte. È un inno ai luoghi dove la vita è libera di essere come le pare, e se il linguaggio è un posto forse è anche un inno al diritto di rivoltarsi e ei contraddirsi, di perdersi per sentirsi, di rivendicare il proprio corpo come casa e come motore.
Le storie che alla fine riportano indietro il bambino che a un certo punto si è perso, o nascosto, nelle pieghe di una vita adulta di cui abbiamo fame troppo presto, ecco, mi piacciono un sacco. Alla fine del romanzo, Lucy prende un pennello e sistema le crepe nella parete. Tra uno strato e l'altro di pittura ci sono intrappolate setole vecchie di decenni, lasciate forse da sua madre in un tentativo analogo, forse dal nonno. Come a dire so da dove vengo. Come a dire non so dove vado, e va bene così. Come a dire – e lo dice – “potrei spaccarmi di nuovo, ma ora so che c'è qualcosa di integro sotto a tutto questo”.
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