Medea. Variazioni sul mito (sui miti?)
Prendo in prestito il titolo del volume di Marsilio per stupirmi – o forse no – di quanta potenza racchiudano ancora i classici, persino laddove si annidano in un passato oscuro e crudo. Leggiamo i classici perché conosciamo – pensiamo di conoscere – la storia di Medea a memoria, e ancora a ogni battuta un po’ ci manca il respiro, quasi sperassimo irrazionalmente che stavolta le cose finiscano in modo diverso. Sappiamo esattamente cosa succederà, ma la scena ci spezza comunque. Spezzava gli spettatori di duemila anni fa, spezzava Grillparzer un po’ più vicino a noi, Alvaro nel secolo scorso, Christa Wolf alle soglie di questo.
Della capacità del mito di raccontare qualcosa di profondamente umano, anche quando ricorre a immagini magiche o eroiche, altri hanno parlato prima e meglio di me. Medea, in particolare, è la tragedia del diverso, dello straniero, condizione che accomuna Medea e Giasone, anche se di quest’ultimo – il conquistatore trionfante – tendiamo a dimenticare lo smarrimento, l’angoscia che scompaiono nelle tenebre da cui ha estratto il Vello d’Oro. Giasone è greco in Colchide prima che Medea sia barbara sul suolo ellenico. Se vogliamo trovare una scusante a questa dimenticanza, diciamo che lui stesso ce la rende facile.
Le trasposizioni più recenti di Medea si incuneano tra le rime di una frattura perpetrata attraverso una serie di impossibili ritorni: l’amore li condanna entrambi, ma Medea pare dotata di memoria migliore, per quanto dolorosa.
Se la cultura greca possiede un cardine – una τυχη, paragonabile alla Fortuna latina – di necessità, di fatale deriva dei fatti in favore di una ricomposizione in un piano più alto, l’interprete moderno di questa vicenda non può non scorgerne, intatta, la tragicità. Medea non è certo la prima donna abbandonata del mito: basti pensare ad Arianna, basti pensare a Circe – con la quale condivide una possibile linea di sangue – o a Nausicaa. Penelope e tutte le altre.
Non è la prima, ma rimane indimenticata: la tradizione greca la rintraccia nei versi di Apollonio Rodio ed Euripide, il primo a eleggerla protagonista di un viaggio, sino ad allora, essenzialmente maschile. È una creatura misteriosa e oscura, poco più che umana, poco meno che divina: un piano liminale che pone il suo gesto estremo su un piano distinto, sovra (o dis-?)umano. È Euripide a tingere la vicenda del tono più fosco: prima di lui, non si ha notizia certa dell’uccisione dei figli, rintracciabile in qualche ramificazione spuria e parallela del mito e qui incisa come punto di non ritorno. Da qui, Medea non potrà più essere raccontata se non come infanticida, quasi la cruda fiamma della violenza avesse incendiato per sempre anche il velo del tempo e l’oblio della storia.
Il mondo maschile non troverà compassione per Medea ancora per molti secoli, ma non riesce a concepire l’aberrazione come appartenente a una società umana, per quanto contaminata dalla barbarie della magia. Così la Medea di Euripide si identifica con una maschera – diversa negli atti che si susseguono: la sposa umiliata con cui il coro empatizza (unico atto di pietà che le viene rivolto e che cade nel silenzio attonito che inghiotte gli eventi); la donna scaltra e irrazionale, il cui tratto più ultraterreno non è che un’intelligenza fredda, affilata; il mostro famelico di vendetta dell’atto finale, un essere al di là della morale umana – sia essa greca o straniera – che trova sbocco, ma non perdono, in un oscuro culto dei figli morti.
La Medea di Seneca è anch’essa una donna nera, oltre il limite dell’umana pietas – concetto fondante della cultura latina – contrapposta al pius Giasone, che l’autore ritrae come un novello Enea: uomo giusto ma ingenuo, colpevole nei confronti degli dei per aver sfidato il loro volere con la spedizione alla ricerca del Vello D’oro. Pur mosso dalla necessità – sulla testa del giovane, incauto Giasone pende una condanna a morte – egli si macchia di un delitto che trova punizione nel tremendo destino che incontrerà a Corinto. Un’interpretazione che solleva Medea dalla colpa? No, toglie senso e scopo al suo agire. Se lo strazio della morte della sposa e dei figli da parte della donna-maga che lo aveva avvinto una prima volta è il castigo divino per il suo peccato di ύβρις, a Medea viene sottratto qualsiasi ruolo attivo. Come a dire che è nera, oscura, disumana, ma vittima anch’essa.
Grillparzer – siamo circa settecento anni più tardi – è il primo a proporci una Medea di un’umanità sconvolgente. Nel farlo, le riserva il culmine di una trilogia tragica che immerge lo spettatore nel viaggio degli Argonauti dal suo principio: l’eroe irresistibile ma privo di mezzi per macchinazioni altrui, la principessa selvatica, innocente. Vittime del destino e delle macchinazioni altrui – non c’è magia in Grillparzer – si irretiscono a vicenda, compromettendosi senza smettere di guardarsi le spalle, tormentati, forse addirittura incalzati da domande sempre più asfissianti. Grillparzer fa di più: è anche il primo a dare nome e voce alla figlia del re di Corinto, quella che nel mito si chiama a tratti Creusa, a tratti Glauce, donna mite che nella tradizione classica ha l’unico scopo di comparire come vittima. Non lei. La tragedia di Grillparzer perde il coro, è una tragedia di dialoghi, di contatto, una tragedia fisica di teste sulle spalle, di abbracci, di dita che guidano dita sulle corde di una lira. E la sua Creusa meriterebbe un dramma a sé: unica interprete di una tenerezza disarmante – tu non vieni? Proviamo ancora una volta. Io non ti lascio finché non lo sai – e portatrice di un tipo di forza diverso, che spinge a Medea a interrogarsi sul senso della propria presunta potenza.
È una tragedia di colpa: Grillparzer avrebbe lavoro facile a farci detestare Giasone sin dall’inizio. In fondo, nel mito, le ragioni non mancano. Basterebbe metterle in ordine. E invece lui crea qualcosa di vivissimo: un uomo combattuto, all’inizio. Fosse anche solo per senso del dovere, lui ci si infila, nel destino di Medea. Intercede per lei, domanda, preme. Sì, la storia la conosci, ma arrivi davvero a chiederti se stavolta qualcosa possa essere diverso. Te lo chiedi mentre Medea prova a suonare la lira, con le sue mani fatte per la guerra e non per la musica, te lo chiedi mentre Grillparzer ingrana la tensione in maniera magistrale: assisti impotente, insieme a Creusa, allo scoppio di un’oppressione ormai quasi incontenibile che confonde persino le ultime dolcezze. L’elmo sui riccioli. Rumore di fondo: è Medea che prova a parlare, ma lui non ha orecchie, perso in una gloria che tenta di ricalcare – parla, parla, parla, e soffoca così qualsiasi possibilità di ricomporre una scissione che ha alimentato, ma non saputo riconoscere.
Cantami tu quella canzone – è la tragedia di Creusa e un po’ anche la nostra, modernissima, che di uomini sordi e più pronti alla commiserazione che non all’autocritica ne sentiamo sin troppi. Accecato dall’aver perso se stesso, Giasone cade nell’autoinganno di potersi riconoscere e in un rimpianto venefico. Più manipolato che manipolatore – ché la manipolazione riesce più facile quando c’è un diverso da incolpare e qui, pur rifiutandosi di vedersi come tale, ormai lo è anche Giasone, contaminato non dalla maga della Colchide ma dalle proprie mani sporche di sangue – cede alla voce che gli promette una lealtà impossibile e perduta.
Vittima dell’autoillusione cade anche Medea stessa: tragica e modernissima la sua ostinazione a credere che esista ancora un Giasone diverso rispetto a quello che le parla davanti, sopra, contro.
A spezzarle il cuore, infine, non è lui. È nuovamente questione di lealtà: Giasone la riottiene, Medea la perde per sempre. Ripudiata dal marito, dalla città e dai figli, si lascia definitivamente spaccare da ciò che di oscuro le è sempre appartenuto. Che è rimasto vicinissimo anche quando si è illusa di seppellirlo: cosa vuoi che siano due manciate di terra. Non manca l’avidità – la tragedia del possesso – ma a Creonte non è nemmeno dato sapere di aver chiesto con la sua voce – la stessa con cui aveva tacitato Medea – l’approssimarsi della fine, quasi ne avesse armato la mano.
C’era un drago, alla fine della tragedia di Euripide. Qui c’è un finale, unicum tra tutte le versioni di mito.
C’è un’ultima Medea nella storia recente – no, non parlo dell’incredibile, incendiaria Medea di Christa Wolf, ma di una versione forse dimenticata: la protagonista della Lunga notte di Medea dell’ italianissimo Corrado Alvaro. È profuga, ma non sola: se tutte le Medea della tradizione sono accompagnate da una nutrice, ultimo ricordo della nativa Colchide perduta, qui la principessa in esilio ha un suo piccolo coro, vivissimo e dinamico. Mi hanno ricordato spighe di grano al vento in questa lunga, lunghissima notte.
È una Medea schiva, vulnerabile, una donna che rifugge la gloria e cerca il silenzio. Non ha più nulla della principessa crudele e bellissima: la immagino con questi capelli indomabili, riccissimi, magari anche con un cerchietto d’oro, ma di una bellezza sciupata. Ombre scure intorno agli occhi. Un tentativo scomposto di acconciarsi per l’arrivo di un marito che non smette di cercare almeno per un braccio, almeno con la voce. Una Medea che è un po’ Esmeralda, amata, temuta, solissima principessa in esilio.
È una tragedia che si consuma oltre porte che non proteggono più, alla luce di lampade inaffidabili: la progressiva umanizzazione della figura di Medea che il lettore di Grillparzer è allenato a riconoscere arriva qui, per esiti diversi ma con vigore intellettuale non inferiore, a esiti vividi come quelli di Christa Wolf.
Svegliarsi nel cuore della notte e partire: senza niente, il dilemma dei figli, lasciare tutto, lasciare l’amore, lasciare la carne e anche i sogni, i sogni della stessa ragazza che un tempo sì, in piena notte si è alzata ed è partita e ha avuto tutto il tempo per pentirsene e non l’ha mai nemmeno detto ad alta voce, finché non ha dovuto difendersi e dire, almeno, “lascia il padre a questi ragazzi”. Anche loro hanno voce, qui, una voce rumorosa che catalizza la tensione del lettore, perché se c’è una cosa che non cambia mai, del leggere i classici, è proprio quel sapere come andranno a finire e provare la sensazione di doversi tenere forte lo stesso.
“Compiuto il primo atto, altri dovranno seguire. Ti spingono in alto, con forza.”
Somiglia un po’ a quello che diceva il Giasone di Grillparzer, quando ancora non si perdeva solo dietro alla sua stessa voce: “paziente spingi, spingi la pesante pietra, che sempre rotola indietro e ti viene addosso, sbarrando ogni sentiero e ogni via d’uscita. Sei stata tu? Sono stato io? Non so. È successo.”
Nessun eroismo. È la tragedia del rimpianto, del riviere la fuga a ritroso: irresistibile, vertiginosa, una continua accelerata marittima mentre Alvaro rivela un finale che divampa – non ho altre parole, e sì che lo sai, lo sai fin dall’inizio, e lui distribuisce vita e morte in un mare che ormai sembra davvero piccolissimo ma non smette di essere lo stesso Egeo di seme, lacrime e sangue che persino Pavese ha provato a imbrigliare, e noi continuiamo a leggere.
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