Jazz, Toni Morrison
Jazz, Toni Morrison
Pickwick edizioni – Traduzione di Franca Cavagnoli
Novembre/dicembre 2022
“Come una puntina nel solco di un disco”: trovare una traccia, la traccia, e seguirla fino a cambiare pelle, fino a convincerti di essere libero e non accorgerti di cadere nel solco della tua stessa esistenza.
Come lo si racconta Jazz? Come un cielo che non esiste più. Come una musica che prega e che sfida dal basso del luogo dove nasce e inizia a battere, inesorabile, crudele e colorata. Come sangue, e risate, e capelli dorati e un anello e delle scarpe brutte, e due mezzelune sulle guance e una coperta blu, con la memoria corta della campagna e quella sovrascrivibile della città, come una rabbia composita, ostile, ammantata di rigogliosa e ruggente seduzione, sfrontata come le sue parole, avida come le sue dita. Con la sua fame per l'urto violento, per la fessura da cui no, non entra la luce, ma solo il buio. Come l'istinto di strizzare il succo della vita fuori dal mondo con la mano a pugno, e tieniti stretto, tieniti alla corda ché questa è anche una storia di pozzi.
Come lo si racconta che non è una domanda retorica, qui, perché il libro si fa voce, note, pensiero liquido, un'orchestra anarchica senza direttore che si scrive da sé il proprio spartito, forte della scarsa capacità memonica della gente di campagna che si innamora a prima vista e dimentica di essere stata altro, di aver voluto essere altro. Lo si racconta attraverso un colore, che ogni logica vorrebbe essere noir (e non è solo questione di pelle, ma di polifonia) e invece per me è rosso e arancione, il timbro orchestrale di Harlem, unico personaggio a non avere un nome e quindi eloquente in maniera sospetta proprio tra una crepa e l'altra. La città che induce alla contraddizione, che poi è per sua stessa natura il massimo grado di libertà, guscio e gabbia di tutte le possibilità umane – tutti sanno chi sei. Nessuno sa chi sei. Protegge il tuo segreto sfrontato sotto una coltre di nubi, un cielo che è un soffitto surriscaldato, violento e prepotente ma capace di inaspettate gentilezze, pur di tenere insieme le suture mal ricongiunte delle delusioni e dei rimpianti.
Lo si racconta e lo si lascia riscrivere se stesso: sicuro, sfacciato come il passo di una donna tutt'altro che indifesa, per poi perdersi in ciò che non sa, che si rivela essere più o meno tutto il mondo.
Lo si racconta attraverso la sua lingua, una “lingua da rinnegato, un giocattolo aggrovigliato e malleabile che non vede l'ora di essere lasciato in pace” ma si nutre della rabbia e della diffidenza di chi si ostina ad accudire un impulso, quello di sentirsi non nuovi ma audaci, fieri di condividere nelle stesse scale disarmoniche un linguaggio segreto, sensuale e crudele: tenere il cuore all'oscuro dei fianchi e la testa vigile su entrambi e nel contempo sperare di perdersi, gemelli nel ballo, leggendo la strada in una seconda giugulare.
È la storia di una caduta e di una amputazione ma soprattutto è la storia di un abbandono che porta ognuno molto più che “East of Eden”, li precipita nell'amata-odiata città a contendersi il potere e le cicatrici sotto la coperta di un cielo che non c'è più e che non sono forse neanche certi ci sia mai stato. La storia di come (ri)scopriamo chi ci abita dentro, qualcuno da trattare gentilmente e da mostrare a quelli di cui fidiamo tra una crepa e l'altra, l'io che proteggeremmo sempre e finiamo per uccidere, oppure per il quale saremmo disposti a uccidere. Un io che è anche un po' lui lei loro, la voce ferita e prepotente delle finestre e degli androni dei palazzi, dei capelli bruciati dal ferro e delle feste prima che qualcuno esploda il colpo, prima sicura, poi anch'essa assorbita, interrata in una faglia sotterranea che mastica e risputa persino chi è “curioso, inventivo e bene informato” e poi reimpara a ridere, ché ridere è una cosa seria, serissima, e li si vede ridere quasi più alla fine che all'inizio, loro coi nomi pieni di una vita che sarà necessariamente messa a ferro e fuoco senza nemmeno promettere una Terra alla fine, solo i pozzi e gli alberi e persino una mela e un fiume che si chiama Tradimento ed è forse l'unico segnale scritto, ché il resto è tutto voce è tutto note è tutto pancia è tutto pelle.
Mai letto nulla di Toni Morrison, è solo un grande nome nel mio sterminato labirinto mentale di scrittori, scrittrici e titoli di libri che vorrei o dovrei assolutamente leggere. Il suo titolo stampato in testa, forse perché il più famoso o quello di cui io ho sentito parlare più spesso, è Amatissima. Su Jazz non credo di aver mai sentito/letto niente prima d'ora, dire che da come ne parli m'ispira è poco.
RispondiEliminaLa storia di come, invece, io abbia letto Jazz è abbastanza buffa, ma in ogni caso mi viene da dire che la ameresti.
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