I falò dell'autunno, Irene Nemirovsky
I falò dell’autunno, Irene Nemirovsky
Adelphi Editore – Traduzione di Laura F. Guarino
Dicembre 2021
Attesa: femminile, singolare.
Il ritorno è maschile. Il tradimento: maschile anche lui. No, non c’è nessuna velleità di facile femminismo. Non inizia e di certo non finisce in una scollatura ingioiellata, in un ritorno ammantato di profumo altrui. Più velenoso, più incline a ritorcersi in un inconsapevole contrappasso è il tradimento di “un mondo di abitudini, di emozioni, di gioie e di dolori”. Consola poco che sia femminile anche la redenzione: quella di Bernard sembra passare più da una sorta di stanco riscatto, pagato tutto con la pazienza, con la sopportazione di Therese.
Therese che fa tenerezza, almeno nel suo slancio – un atto di coraggio, una fuga dalla tragica immobilità delle lancette ferme al momento in cui tutto poteva ancora cambiare – ma fa anche un po’ arrabbiare. Certo che è figlia del suo tempo. Certo che fa pensare a quel quadro di Klimt, quello con le tre età della donna, tutte racchiuse nello stesso volto, nello stesso boccolo prima biondo e poi grigio, come a dire “guardami, sono ancora bella. C’è ancora tempo.”
La verità è che proprio il tempo, in tre atti, li tradisce tutti. Si prende gioco dell’euforia della guerra, concitata e già esausta, che consuma e si consuma da sé, si confonde nella Parigi espressionista di inizio secolo, affollata e rumorosa come un quadro di Munch, la città di cipria e di polline che Nemirovsky, forse proprio smascherando il tradimento, arriva a odiare.
Uno Spirit du temp che sembra il contraltare perfetto dello Zeitgeist di Joseph Roth li illude sia possibile trovare un compromesso tra sogno e realtà, ma il risveglio è il medesimo strappo – “una sorta di cedimento, un’incrinatura, una mancanza di fiducia, la stanchezza e un’esasperata voglia di vivere”. Dall’altra parte della barricata, dietro uno specchio un po’ opaco: nel cuore d’Europa, ma alla deriva.
Invecchiati, già aspri senza aver avuto l’opportunità di maturare, i giovani mai stati ragazzi si ritrovano a dibattersi tra il desiderio di essere coinvolti, parte di qualcosa, fosse anche solo un’ansia, una frenesia – un’anima collettiva – e un ritorno che è dramma individuale. Così ubriachi di amor di patria da evaporare in uno stato di abulia, apatici e capricciosi come a rivendicare l’infanzia cui sono stati sottratti, “col palato corroso come dal più forte dei liquori” – loro, che avevano la fortuna di fare da comparse a Parigi, preferibile a una vita da protagonisti in qualsiasi altro posto del mondo. Loro, che passeggiavano nella città dove l’aria, nelle sere gentili, è zucchero a velo e color malva.
“Le imprudenze più sconsiderate, le follie più assurde, le compirò serenamente, con la certezza che niente influisce su niente e che tutto continuerà ad andare come sempre alla meno peggio. Non credo più alle catastrofi, visto che l’ultima è fallita. Non credo più all’infelicità, né alla morte. L’intera umanità si trova nello stato d’animo di un bambino che non ha più paura del babau.”
Essere esuli in patria è il comune destino – di chi torna, di chi non torna. Persino di chi resta. Se il diktat maschile lega la donna al sangue, questa generazione di nozze mai consumate, di riti di passaggio bruciati è figlia rinnegata, partorita con la biblica dose di dolore dalla guerra stessa.
(Femminile, singolare).
Il padre? Un padre che avresti voluto essere, un padre che avresti voluto avere. Ironia della sorte, tutti e due disertano l’appello. Come talamo, rimane solo un tetto diviso con un mutilato. Come calore, la massima aspirazione è il compassionevole conforto umano. La guerra-madre non conduce pietosa a casa, avvelena persino la soglia del ritorno, affida tanto a Bernard quanto a Therese le mappe e le chiavi della loro consapevole rovina. Dopotutto, il matrimonio è un patto crudelmente reversibile, l’innocente è chiamato a pagare per il colpevole, debitori in solido di una colpa che non brucia, ma spolpa sino alle ossa.
L’illusione di potersi ribellare a un sistema per costruirne uno nuovo, scintillante, in cui la frattura sia novità e non frammentazione si stempera in una delusione che non brucia neanche più. Si accontenta di tenere caldo il fuoco per qualcun altro, rientra nei ranghi di una mediocrità “facile e senz’anima”, dedita al saccheggio, piagata dalla noia a cui la generazione spezzata non ha mai prestato il fianco – ma ha soffocato ogni scintilla.
I falò dell’autunno non scaldano nessuno. Ma, come riverbera in altri fuochi, in altre campagne, non siamo pronti a rinunciare al fatto conforto che ci offrono punteggiando il paesaggio – oh, come siamo anteguerra. Come siamo reazionari. Come siamo disperatamente eroici, e come altrettanto disperatamente desidereremmo solo che qualcuno lo vedesse.
P.s: la data è corretta, è proprio dicembre 2021. Questo è stato uno dei primi testi a non trovare spazio su Instagram, rimasto in una cartella finché non mi sono decisa, finché non ho capito che infilarlo solo in un post non sarebbe stato giusto. Si può dire che questo blog nasca un po' anche da qui.
Vibrano dei frammenti che mi ricordano Suite francese, il suo romanzo più celebre ed uno dei tre che al momento ho letto io. Provo sempre una gran rabbia quando penso che quella era solo la prima parte di un suo progetto immenso, doveva essere il suo Guerra e Pace e credo sarebbe stato incredibile. Chissà perché, leggendo il tuo post e ritrovando quei frammenti - la guerra, la patria, i giovani, Parigi, il maschile ed il femminile - mi son chiesta di cosa avrebbe scritto oggi Iréne. Ogni penna è inevitabilmente figlia del suo tempo, alcune più di altre, come la sua che faccio fatica a distaccare dalla guerra e da Parigi, anche se dentro c'è moltissimo altro. Mi è piaciuta un sacco la tua frase sul cielo di Parigi, e quel meglio comparse lì che protagonisti da qualunque altra parte.
RispondiEliminaSono frasi sue. Che mente, che penna! Grazie per la tua analisi, me la tengo stretta per quando affronterò, magari, proprio Suite Francese.
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