Pastorale Americana, Philip Roth

Pastorale Americana, Philip Roth
Einaudi Editore – Traduzione di V. Mantovani
16/22 – Febbraio

Per qualche meccanismo di intuitiva assonanza, quando ho preparato lo zaino per Lisbona pensavo di portare con me Roth e Dostoevskij. Non avevo alcun elemento per dirlo, e forse ancora non ne ho. Perché una lettura come Pastorale miniaturizza anche te, se glielo lasci fare. Se lo fa col sogno americano, figurati che cosetta piccola sono i nostri piccolissimi sogni individuali. Ti tritura. Ed è meraviglioso.
Un pochino avevo ragione, credo, perché Dostoevskij non solo lo cita, ma se devo pensare a un campo di applicazione della massima manganelliana che dice “un libro non si legge, vi si precipita” forse davvero non ve n’è mai stato di migliore. Perché Paradiso Ricordato – La caduta – Paradiso Perduto hanno qualcosa di Memoria e qualcosa di Sottosuolo (un sottosuolo moderno, però, un dimenticato tunnel suburbano): una caduta deliberata, lenta, una catabasi volontaria – mai inciampo, mai caso – verso un regno ctonio di spettri dalle unghie feroci. C’è Dostoevskij, e non credo di essere visionaria io a trovarcelo, e poi c’è anche Tolstoj; c’è Milton e ci sono Orfeo ed Euridice, e la grandezza è proprio nello sforzo che dobbiamo fare per ricordare che lo scrittore si è fatto da parte (e dove è finito? È caduto in questo pozzo? Come? Quando?) e mollare la fune, e cadere con lui.

L’atterraggio è tutt’altro che morbido: ci si cala senza sicura, si precipita tra le macerie del sogno americano che scoppia in faccia a se stesso, accatastate per bruciare più in fretta quando si accende la miccia. È una buona metafora della scrittura di Roth: il suo divagare – maestro del “conosci le regole e fa’ ciò che vuoi” – non disperde tensione narrativa ma, al contrario, accumula combustibile: tutta roba che esploderà, scagliata in mille pezzi, capace di dilaniare a distanza di miglia. La deflagrazione sarà tanto più devastante quanto più avrà di che nutrirsi. Persino le ciance sui guanti, le storie di eroi del baseball, le chiacchiere ubriache di Jessie che blatera di caccia mentre danno la caccia a Merry, la topografia di Newark. Un ritorno dal mare. La catasta brucia più in fretta e fa più danni, ma solo al segnale di Roth, non un attimo prima, non un attimo dopo. Una sorta di dilazione dell’esplosione: no, non è per tutti (e per fortuna). Che poi è ingannevole quell’io narrante dubbioso, acuto, polemico, tronfio suo malgrado, anche dolente: sembra stordire di chiacchiere e poi la storia non è nemmeno la sua, e forse sparisce perché è giusto sparire.
(in principio era il Verbo)
Raccontare amplifica. Raccontare dà sollievo. Raccontare rende intollerabile. Forse è per questo che rintracciare la voce di Merry – oltre gli strilli, oltre la balbuzie – è così difficile. Il suo modo di tacere. Il suo modo di non tacere: violentemente contro, pateticamente a favore (giusto, Roth si mangia anche le prescrizioni sugli avverbi, e ha tutto il diritto di farlo). Cosa sei, spogliato dei segnali che lanci (io sono qui, ma forse non vorrei starci)? Non avrebbe più senso, allora, strillare cosa non sei?
Quanta spietatezza è necessaria?

Eppure comincia tutto a fior di labbra, nella distanza tra una sberla e un bacio dato per sbaglio. Comincia con le cose che finiscono: il rito della sveglia, ultima tenerezza infantile. Lo stato di innocenza, un velo a cui dar fuoco, ma anche, scavando alla radice, la capacità di non nuocere. Comincia scaraventando in superficie ciò che teniamo segreto, il nostro Sottosuolo personale, materia instabile alla ricerca della precisa concentrazione chimica necessaria all’esplosione. E intanto stai già impazzendo dietro a questa ragazza impossibile, al di là del perdono, e al tempo stesso scarificata e dilaniata lei stessa, ti stai già chiedendo cosa ci sia dietro alla sua abnegazione estrema, alla caduta lontano e fuori da sé – cosa ci sia nell’ascetismo della scaltrissima Merry. La volontà di punire chi le ha dato la vita in un mondo che odia e che non può cambiare? Cosa c’è nella richiesta di riavere l’album – un tentativo di ricostruire un’immagine di sè, o di portarla via a loro? Forse l’occhio dello Svedese – un uomo che non arriva mai a scoppiare, che affonda e basta – è viziato da quel lancinante e irrimediabile amore paterno, difficile da guardare senza socchiudere gli occhi, soprattutto quando non lo vuoi. Puoi strapparti la pelle di dosso, ma per loro rimani sempre un bambino, incapace di nuocere, a costo di passare per ottusi, perché non la capiscono la crudeltà di un figlio. In un mondo giusto, farebbe quasi tenerezza. Ma questo – no, non parlo del mondo ebraico di Roth, parlo proprio del nostro – è il mondo della colpa, quello in cui farsi domande troppo presto è devastante e farsele troppo tardi è anche peggio, e non aver dovuto porsele prima non giustifica la sconfitta. Fa’ ciò che ci si aspetta da te e vedrai che andrà tutto bene – uno si rassegna a una vita obbediente per abbassare il prezzo, e poi? – e, se non è così, sei responsabile.

Queste gioie violente hanno violenta fine – e le angosce, allora? Le infatuazioni? I rifiuti? Dove si colloca il termine, più o meno cruento di questa “orribile vita interiore fatta di ossessioni tiranniche, tendenze soffocate, aspettative superstiziose, fantasie spaventevoli, conversazioni chimeriche?”

Ecco, per avere un assaggio di come scrive Roth. Notte dopo notte, una solitudine immensa. La storia la fanno i vincitori, perché pochi hanno stomaco per quella dei vinti. L’ho già detto che non è per tutti, e per fortuna? Mi sa di sì.
Colpa. Peccato. Errore. Forse sarebbe più giusto chiamarlo solo ferita, senza considerarlo per forza un atto di autoindulgenza: la tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia. Se quell’uomo pensi di non poter essere tu, se lo guardi con distacco chiedendoti cosa sia andato storto – be’, sei ancora sulla salita. Goditi il momento. “Nessuno attraversa la vita senza essere segnato in qualche modo dal rimpianto, dal dolore, dalla confusione e dalla perdita.”

È tragedia storica, sociale, collettiva, ma è anche e soprattutto tragedia individuale. Mi sono annotata un gioco di parole che riesce bene soltanto in inglese: a history of violence, making every personal story one of violence too. Se esiste un lessico famigliare, come un certo Novecento ci ha insegnato a pensare, allora esistono anche una geografia e una cartografia, con una scala propria, un ordine di grandezza, viziate e distorte dalle proporzioni fantastiche dell'infanzia.

Non dimentichiamo le cose solo perché non contano, ma le dimentichiamo anche perché contano troppo. Perché ognuno di noi ricorda e dimentica secondo uno schema labirintico che rappresenta un segno di riconoscimento non meno caratteristico di un’impronta digitale.”


Perché Roth mina alla base e destruttura l’identità borghese e il suo substrato – la casa, la pietra, ciò che un tempo era la terra; il lavoro, spesso quello dei padri, come strumento di espiazione; il senso di colpa e il bisogno di riscatto che non conoscono confini di credo religioso. E poi, fuori, gli altri, di cui ci ostiniamo a ignorare che il nucleo di senso è esattamente lo stesso che ci fa impazzire e cui ci aggrappiamo tanto. Ogni giorno è un giorno del giudizio.
Mina la stratificazione delle generazioni, mina la lucida contraddittorietà delle caratteristiche tipicamente ascritte all’ebreo incastrato nel tessuto sociale americano, in costante scissione tra il bisogno e il rifiuto di assimilarsi, rendendole indistinguibili alla luce abbacinante dello status di stella dello Svedese, una scheggia della cometa del caos americano. Bellissimo, dotato, meritevole. Peccato che Roth sappia giocare talmente sporco che ne esce quasi pulitissimo, perché a noi di una stella rimane solo una traccia luminosa vecchia di anni, un corpo celeste che potrebbe essere già morto e rimane lì, appeso a distanza, a brillare in ritardo per gli occhi di chi, forse, non ne sa cogliere che lo spettro luminoso (qui il gioco di parole, però, riesce bene anche in italiano). È una scheggia impazzita a rivelare le storture del meccanismo stritolatore degli egoismi genitoriali, che vedono i figli come proprie versioni perfezionate, o perlomeno perfezionabili: il compromesso intergenerazionale, la grande tregua che ci permette di perpetrare le banalità borghesi dei padri chiudendo un occhio sulle ribellioni dei figli. Funziona quasi sempre. Ed è in quel quasi che scoppia la scintilla e la scheggia impazzita diventa una bomba.
Come dopo ogni esplosione, restano i rottami – e siccome non c’è nessuna ironia della sorte, solo una cruenta coazione a ripetere, la strada lungo cui raccoglierli è la stessa lungo la quale si è costruito come imprenditore e come figlio di suo padre – non solo dell’esistenza di Seymour ma delle promesse alla generazione precedente, promesse che pensava di aver già mantenuto, elevate al cubo, moltiplicate per più di se stesso e deflagrate insieme a tutto ciò che pensava di aver messo al sicuro: talento, ambizione, tranquillità, doni mai richiesti di cui ci riscopriamo – solo se siamo molto consapevoli, o estremamente sbriciolati – schiavi, tranne per i brevi momenti in cui combattiamo la situazione con lo humour. Serve una dose di determinazione impressionante – lucida, scaltra e cruda come quella di Merry, che vince senza competere – per resistere loro, quando diventano più ingombranti di noi e soffocano, prima che ce ne accorgiamo.

Lo Svedese, manipolatore inconsapevole, è un eroe suo malgrado sin da pagina uno, consacrato sull’altare della generazione precedente dall’adorazione della voce narrante: ci sono infatuazioni giovanili – una ragazza, un’idea, un posto, un idolo – che non si attenuano. Le possiamo dimenticare, almeno in apparenza. Le possiamo sommergere – lo vedete, il sottosuolo? Il substrato, come lo chiama lui? – sotto gli anni, ma nel momento in cui una scintilla le riporta in superficie, il modo in cui ci avvincono di nuovo, le distanze che siamo disposti a coprire, la potenza del richiamo sono i medesimi.
Non ho mai capito davvero – e secondo me è anche giusto così, da non americana – cosa ci sia di così potente nel baseball da renderlo a tutti gli effetti, per Roth come per Auster, un cardine nevralgico sul quale sovrascrivere le vicende individuali. Lo sforzo agonistico, un mondo avulso e parallelo dalla realtà e ancor più dalla cultura ebraica, va oltre la dimensione di pura distrazione, si fa meccanismo di riscatto e di espiazioneαγών (agon), in greco, è tanto la competizione quanto la fatica, con tutte le sue connotazioni. No, nessun sogno americano: l’agonismo ti abitua – illudendoti – all’idea di misurarti con un avversario leale, un confronto continuo che crea quasi assuefazione, una fame, una spinta alla competizione, ma per gli avversari che la vita ti mette davanti davvero, quelli sleali, non sei pronto mai. Peggio, non li sai leggere. Ti aspetti che giochino pulito. E quando ti rendi conto che solo un certo grado di ferocia ti permetterà di averne ragione, puoi solo sperare di saperla nutrire. E che non sia troppo tardi.

È la maledizione di Seymour, o forse una delle maledizioni: troppo corretto anche solo per sgravarsi la coscienza, negandosi ogni possibile sollievo, ogni possibile perdono. Una maledizione tutta americana: gli ebrei di seconda, terza generazione non hanno un vecchio continente da ricordare, non hanno di che sentirsi spaesati e sradicati. Loro appartengono, perché non c’è un prima di Newark. La generazione della rivoluzione, la prima per la quale è sconvolgente non essere in guerra, dove si può inseguire l’idea di una casa, magari con un pezzo di terra – non basterà alla generazione di Merry, ma quella è storia. Ciò che costituisce l’essenza del sogno americano, pur lucido, dello Svedese, non è che il nocciolo della felicità – poter stare dove si vuole?
Ma poi – lui è forse dove vuole essere? Non è forse, piuttosto, stritolato da dove sente di dover essere? Il fatto che esistano ancora delle certezze etiche a cui appigliarsi è un sollievo, ma è lo stesso che lo stritola – la vita è un inganno per tutti, oppure sei tu l’unico a non capire?
(“Tutti abbiamo una casa. È lì che va sempre tutto storto”)

È la generazione che, fosse anche solo una volta su mille – che quando si tratta di te consola ben poco – si ritrova scoperchiata, atterrita dalla certezza che la minaccia ha già varcato la soglia, che non c’è più fuori o dentro che tenga. Il sogno americano miniaturizzato, prima ancora che polverizzato: guardare dentro dall’alto e frugare, portare via, depredare. Un banchetto – un’ultima cena – ferocemente carnivoro. Uno di voi mi tradirà. Deflagrazione ultima del sogno americano: lui è lì, ma è anche già altrove. Non è più dove vorrebbe stare.

E mi piace – mi atterrisce – pensare che lì, a quel macabro banchetto di morti viventi, Seymour alla fine capisca qualcosa di Merry, che capisca quell’istinto di sabotare tutto, il fascino della slavina. Un’altra Caduta. Dopotutto, cos’è la Genesi se non una storia di formazione e deformazione sul conflitto generazionale, forse presa un po’ più sul serio di altre, forse l’origine di tutto quel parlare di colpe e di errori? Obbedisci a Dio e Dio allontanerà la sofferenza da te. Che al contrario si legge: se fai qualcosa da cui Dio ti ha messo in guardia, ne porterai il peso per il resto dei tuoi giorni.
Ma quali giorni. Quali giorni, se i momenti di festa non sono che nuove, sempiterne e ripugnanti consacrazioni di quello che hai perso, di quello che non hai mantenuto, sebbene nemmeno più ricordi la promessa? E allora chiedi una moratoria, o almeno un time out. È un’estenuante trattativa commerciale preparatoria che non trova raffronto nella capricciosa, imprevedibile realtà: terreno neutro e sconsacrato, un po’ come lo sport, su cui si incontrano le più inconfessabili, cocciute confessioni d’America – rendere grazie, mai dimenticare di rendere grazie, che è un verbo che si usa per debiti e crediti, no? – “una moratoria su ogni doglianza e ogni risentimento (…) per tutti coloro che, in America, diffidano l’uno dell’altro. È la pastorale americana per eccellenza, e dura ventiquattro ore.”

Mi piace pensarlo, dicevo. Ma non è che mi fidi troppo, perché Roth è di una crudezza che non ho mai trovato da nessun’altra parte (regalerei una copia di Pastorale a tutti coloro che mi dicono che Una vita come tante lascia un messaggio di dolore e disperazione. Davvero?). E a onor del vero gioca corretto anche lui, da americano avvezzo alla Major League. Siamo attrezzati male, dice, non importa quanto ci proviamo.

Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranza e di arroganza (...) e tuttavia non manchi di capirla male.”

Capire bene la gente non è vivere. Illuderci di capirla, dopo un libro del genere, è stupido e pure un pochino supponente, aggiungo io. Vivere è capirla male – e qui lascio parlare lui – e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come capiamo di essere vivi: sbagliando.

E ovviamente ho sbagliato anche io. Ho sbagliato perché mi sono attaccata a Dostoevskij e a Tolstoj e pure ai quattro disgraziati di Lispenard Street e naturalmente non avevo capito niente, perché questo libro non somiglia ad altro che abbia mai letto, ma che nemmeno abbia mai cercato, figuriamoci trovato. Non siete pronti, ma almeno c’è una buona probabilità che non siate campioni di baseball agonistico. Preparatevi a farvi male. Non servirà.

Commenti

  1. Che bomba questo post. Che bomba questo libro, mi dirai - immagino - tu. Ti avevo già raccontato della mia limitata, ma comunque esplosiva, esperienza con Roth (ricordi? Ho letto scegliendo a caso dalla sua sterminata produzione Quando lei era buona, ne sono uscita a pezzi pensando di voler leggere tutto, invece sono passati anni e sono ancora ferma lì), perciò non ho gli strumenti necessari per commentare come si deve questo tuo commento e creare quel confronto acceso che un testo così si merita senz'altro. Leggendoti però ho sentito la tua vibrante passione, il fuoco di pensieri che una riga dopo l'altra brucia e poi brucia ed ho pensato che vorrei saper leggere così. Ci sono stati libri che mi hanno causato tutto ciò, mi è capitato di scrivere di un libro mettendoci le viscere, ne sono sicura. Però a volte il modo in cui leggi tu mi sembra proprio un'altra storia, che in ogni caso resterei ad ascoltare.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io di complimenti belli come questo ne ho ricevuti pochi. Grazie, Julia. Grazie per prenderti sempre la briga di leggermi, anche quando i contenuti sono lunghi, lontani magari dai tuoi gusti o sentiti tanto da bruciare, come questo libro. Io ho letto (ascoltato) poco altro di Philip Roth, ma di Pastorale sono sinceramente rimasta qussi vittima (con il mio ovvio benestare.) Mi sono lasciata accartocciare, bruciare fino alle ceneri e l'ho lasciato soffiare ancora e rigirare ciò che restava con qualcosa di apppuntito. Io ancora oggi mi chiedo come faccia un libro tanto devastante a essere amato in maniera così quasi scontata – senza arroganza , giuro, ma mi viene da domandare a chi ne parla riducendolo a una sinossi, ad appunti sulla prolissità o incasellandolo in un genere o in un inquadramento se davvero l'ha sentito, se davvero si è lasciatə attraversare. Non è un libro che consiglierei, nemmeno a persone dei cui gusti mi ifdo più che dei miei stessi, come te (perché anche quando leggi cose che io non amo per nulla tiri fuori riflessioni che sono storia a sé), perché può fare un male devastante. Io oggi, dai libri, cerco anche questo.

      Elimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

L'alba sulla mietitura: operazione nostalgia o ritorno di fiamma?

Intermezzo: i sad boys di Sally Rooney

Siamo tutti usciti da Delitto e Castigo, anche quando non lo sappiamo (soprattutto quando non lo sappiamo)