Nel freddo e nella notte, Silvia Torani

Nel freddo e nella notte, Silvia Torani


Fuori c'è ancora la temperatura delle ottobrate che mi piacciono. C'è il sole fino a dopo le sei, mi ostino a bere tisane alla cannella e ho preparato il mio primo pumpkin spice latte anche se sembra ancora tarda estate. È un po' assurdo. Così quando Silvia mi ha proposto di leggere in anteprima Nel freddo e nella notte ci ho messo un attimo a entrare nell'ordine di idee che mi stavo immergendo nella notte artica.
È durato poco. Leggevo soprattutto in pieno giorno e mi ritrovavo a percepire lo sforzo degli occhi di Artemis che si adattavano al buio, l'idea dell'attesa, come una coperta. Il dilatarsi delle prospettive. Quando noi rimandiamo qualcosa a giornate più clementi, spesso si tratta di poca roba, magari settimane. Alle Svalbard, sull'orlo della notte polare, la primavera è lontanissima. È un'atmosfera che Silvia costruisce per dettagli, per abitudini, per ambienti e per odori: quello di salsiccia e di pesce in umido, quello di bagnato delle scarpe tolte appena oltre la soglia, quello del ghiaccio. Per stanze chiuse e spazi aperti che hanno sempre la notte a fare da parete.

Ricreare un'ambientazione lontana senza conoscerla in prima persona è sempre una sfida – per inciso una sfida che all'editoria italiana sembra stare parecchio antipatica e per cui io tendo a parteggiare – e in questo caso mi permetto di dire che non solo è riuscita, ma è anche il punto di forza di un romanzo che non avrebbe potuto esistere altrove.

Quando un libro mi spinge ad aprire Google e fare ricerca è sempre un buon segno. Così, accanto a frammenti di folklore ricreati per questo preciso universo narrativo, si accostano altri tasselli: nomi e idee vecchi di millenni. Mi sono detta che, in un romanzo che fa dell'identità un nucleo di significato, la scelta di un nome non va presa alla leggera, e così ho passato una giornata a perdermi tra le diverse versioni del mito di Artemide, dea notturna e cacciatrice che Silvia reinterpreta in maniera gentile: la caccia si fa ricostruzione, l'inseguimento diventa una ricerca della verità che passa necessariamente da una connessione con la natura, con le sue ambiguità e il rispetto dei suoi limiti. La preda si fa (s)oggetto da comprendere, da afferrare in un senso che non implica il possesso o l'uso della forza, ma quello della ragione. Così Artemide, dea bella e terribile, algida e notturna (e dove meglio che oltre il Circolo Polare?), è anche la donna – non solo la detective – che riconduce a casa una (o più di una?) ragazzina scomparsa. Nel mito si chiama Atalanta. Qui... Be', lo lascio scoprire a voi.

Seguire la voce narrante di Artemis è un po' come infilarsi con piacevole spontaneità nella condizione dell'ultima arrivata e in una riflessione sulla diversità che Silvia delinea dosando con equilibrio lo stile e la tensione narrativa. La voce di Artemis non è mai urlo, la sua rivendicazione non è mai lotta. Mi viene da definirla un personaggio maturo, e indubbiamente lo è, ma uno di quei personaggi maturi capaci di capire quelli più piccoli, quelli che sorridono di più o che dicono più parolacce. Ecco, a me questo piace un sacco. E poi mi piace la scelta originale, se vogliamo anche coraggiosa, del raccontare un'eterna fuori posto come Artemis senza eccessi e senza strappi: raccontarla non in fuga, ma alla ricerca. Raccontarla esploratrice. Non è che un altro modo – gentile – per dare alla cacciatrice la possibilità di fermarsi, di stabilire un rifugio.

E io ho sempre avuto un debole per le esploratrici.

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