La morte del padre, Karl Ove Knausgård
La morte del padre, Karl Ove Knausgård
Editore Feltrinelli – Traduzione M. Podestà Heir
41/22 – Luglio
Cosa succede quando smuovi la polvere? Di solito, banalmente, gli occhi pizzicano. Se di polvere ce n’è tanta, ma tanta davvero, piangi.
“La morte del padre” si muove (spesso apparentemente in cerchi concentrici, macinando chilometri per fare tre passi) tra il romanzo e il memoir.
Forse.
Non sono ancora sicura di fidarmi di Karl Ove, per il quale ho provato l’affetto un po’ esasperato che ti suscitano le tragedie altrui nella vita reale. Non c’è un nesso temporale preciso, quanto più un procedere di specchio in specchio (d'acqua, frequentemente) ingrandendo e rimpicciolendo una porzione di tempo e il suo scorrere a diverse velocità. Una messa a fuoco manuale e imperfetta: “capire il mondo significa porsi a una distanza precisa da esso”.
Quanto sia, questa distanza precisa, non è dato saperlo. L’impressione è che da ragazzino tu abbia proprio bisogno di finirci con la faccia dentro: è la straziante ostinazione dell’infanzia affinché gli altri vedano ciò che vedi tu. Illusione e disillusione. E se non accade, ti annienta una prima volta e per sempre. Il viso che solo tu hai visto comparire dalle onde. Il primo, disperato amore impossibile. Quel legame tra le note di una chitarra – o magari di un basso, e da ultimo perché non provare anche con la batteria? Sono sicuro che c’è. Da qualche parte sono sicuro che c’è – che ti ostini a pensare di poter tirar fuori.
È tutta questione di corazza: cresci e inizi a prendere le distanze. Ti proteggi come puoi, impari a leggere la meteorologia della mente, a fare del tuo sentirti fuori posto il tuo posto, anche quando puoi solo rimanere a guardare da fuori, a chiederti come faccia la gente normale a essere spontanea. I figli delle asimmetrie affettive sono un po’ così: straordinari meteorologi della mente (altrui) per necessità, stritolati da legami non voluti per cui faranno comunque di tutto per essere all’altezza, contabili di un bilancio sempre in rosso di colpe e di errori.
Oh, e specialisti dell’attesa. Cosa mi aspettavo quando aspettavo.
Da una casa all’altra, da un’alba a un crepuscolo estivo che somiglia più a un difetto della luce, Karl Ove di polvere ne smuove proprio tanta (e infatti la seconda metà del libro è fatta di pianti e rimpianti in egual misura). Scrivere, dopotutto, significa portare alla luce l'esistente facendolo emergere dalle ombre di ciò che sappiamo. Dai muri che assorbono le nostre vite. Dagli echi del vecchio modo di guardare le cose, persino delle giornate eterne a ridere fortissimo e ad avere paura altrettanto fortissimo. Mettere a fuoco, ché da adulto ci si aspetta tu abbia capito qual è la distanza giusta. A me fa sorridere, perché Karl Ove scoppia in lacrime così spesso che piuttosto mi viene a pensare che nella polvere ci finisca dentro a faccia in giù, come sopraffatto dallo scoprirsi dentro una storia più grande della sua – quell’emozione composta in parti uguali di sollievo e delusione per cui leggiamo, scriviamo e ringraziamo che ci siano altre persone che fanno lo stesso.
“Essere lì a scrivere un romanzo e osservare come gli ambienti che ti circondano plasmino lentamente e in modo impercettibile la scrittura, perché il modo in cui pensiamo è strettamente collegato a quelli a noi più vicini e di cui siamo parte, alla stessa stregua delle persone con cui parliamo e dei libri che leggiamo.”
Karl Ove fa un giro larghissimo per iniziare e finire allo stesso modo, con la morte, ingombrante innominata che incombe sulle nostre vite e che ci sforziamo di tenere fuori portata. Ti lascia in mano uno di quei libri che, volente o nolente, rimetterai sullo scaffale un po’ rovinato. Nel mio caso sono sabbia e sale, soprattutto. Ho letto questo libro mentre mettevo a fuoco paure enormi e ne ridimensionavo altre e pensavo che davanti all'acqua salata avremo sempre il diritto di sentirci piccolissimi. E che è giusto che bruci.
Sì, è giusto che bruci.
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