Palomar, Italo Calvino

Palomar, Italo Calvino
Mondadori Editore
36/22 – Giugno 2022

Palomar. O: appunti per una complicazione del reale.

Avevo scritto “osservazione”, inizialmente. Ma non serve essere ciò che Calvino definisce “il tipo dell’osservatore” per problematizzare il quotidiano. È piuttosto una sorta di richiamo delle cose, qualcosa di irriverente come un ammicco. Qualcosa di fatale come un segno. Tutto sommato potrebbero bastare un po’ di pazienza e di curiosità – di perseveranza – per avere accesso a uno di quei punti di osservazione insoliti, privilegiati, sulla pancia di un geco o sulla luna pallida del pomeriggio. Diventa necessario distaccarsi dal quadro generale: ogni particolare, di per sé, chiede di guardare e di essere guardato, non di perdersi. Chiede di essere segreto.

Come lo si concilia, questo bisogno di interezza, di lucidità, con la necessità di rallentare, con il setaccio per i fili d’erba, con il pettine per le onde? Rinunciare all’ordine o all’imprevedibilità?
Chi ci costringe a stare alle regole di un gioco a predere?

Scivolare sulla superficie delle cose (qualcuno poi parlerà di aggrapparcisi con le unghie, ma Calvino è più delicato. Salvo poi ricordarci che, se il mondo fosse trasparente, non rivelerebbe una graziosa trama di veli, ma la catena degli stritolamenti e dei divoramenti). L’inesauribile superficie delle cose è un mondo di stimoli, un mondo curioso, goloso e a volte bizzarro. Tenero e tremendo, e meraviglioso, e istintivo. E osservare non basta mai: non ho scelto complicare a caso. Registrare le immagini finché non si ripetono porta inevitabilmente ad avvitarsi nel controsenso dell’individualità: le onde si controbilanciano e si sommano in direzioni opposte. Spinte e controspinte in un dilagare di schiuma.


Nessuno rimprovera al mare di essere contraddittorio.

Un uomo solo, sulla riva, pettina le onde con lo sguardo, le guarda pacifico sfuggire a un perimetro mentale che si nasconde da sé. Un uomo nervoso in un mondo frenetico e congestionato – un uomo inadatto, che forse a un certo punto vorrebbe solo sedersi e abbracciarsi le ginocchia. Contare i fili d’erba. Capire come corrono le giraffe. Dieci metri di riva per dieci metri di mare per distrarsi.

Disarticolarsi. Disgregarsi nel tutto.

Investire sé stesso nelle cose, riconoscersi nei segni molto più che nei sogni. Trasformare il mondo in un insieme di simboli – mappa, legenda e tesoro insieme. Disorientarsi e ricominciare da capo. Camminare ubriaco sul filo tra precisione e inafferrabilità.

Non ha nessun senso pretendere di definire la poetica calviniana, ma ecco, questo filo si presterebbe bene a un tentativo dignitoso, credo. Tanto delicata da interrogarsi sul rumore che fanno le occasioni perdute. Tanto discreta da compagnare le cose fino al loro punto di massimo splendore, quando tutti le sapranno riconoscere, e poi andarsene con garbo.

“La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, visto che la sua esistenza è ancora in forse.” 

Le costellazioni, dopotutto, sono splendide e magari morte da anni. Lune pomeridiane al contrario.


Una cosa da tenere stretta mentre tutto sfugge” – mentre tutto cade a pezzi, non metti al riparo le cose più fragili? La spuma marina, la gobba della luna delle quattro? Le guance gonfie del geco? – “Una cosa in cui placare l’angoscia dell’isolamento e della diversità”.

Non verrebbe da dire che il reale è già confuso abbastanza senza avere il batticuore per promesse che magari rimarranno aria? Perché ingigantire le cose con il telescopio quando basterebbe un paio di occhiali?

Però poi ti frega aver letto le Lezioni Americane. Ti frega che, se lo hai letto, non te lo dimentichi più: una precisione insicura, modulata, tremula, che non appartiene alle cose ma al modo di guardarle (o di scriverle?). Una leggerezza imprescrivibile, che raggiunge il massimo di stranezza con il massimo di regolarità e armonia. Un sapere instabile e contraddittorio che salva, tenendo lontani dal mondo, agganciandosi a esso solo per un filo, attraverso quella connessione intermittente e labile dell’eterno assente – non un sognatore ma un marinaio. Non un poeta ma un giardiniere.

Le pagine si fanno stropicciare dal vento in quella che Heaney chiama una vasta ed esuberante revêrie, e lo sforzo diventa siderale per un omino che immagino così piccolo. Maldestro, tenero Palomar che si rifugia tra le galassie un po’ come me tra le righe, giusto per non incontrarsi faccia a faccia (ehi, signor Palomar, sieda un po’ qui che le racconto due cose.).


Un talento libero e di ampio respiro che avanza lungo una rotta equidistante tra le sofisticatezze dell’avanguardia e l’innocenza dell’immaginazione poetica primitiva.”

Quest'estate mi ha tolto troppe cose, ma mi ha portato tanto mare. E davanti al mare mi sento piccola anche a racchiuderlo in quadrati di dieci per dieci e non mi dispiace nemmeno impanarmi di sabbia, a dirla tutta. Avrei voluto raccoglierla e non ci ho pensato. Ma ho deciso di portarlo un po' con me lo stesso.

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