Barcellona: di rimpianti, immensità e arrivederci

Con Barcellona non è mai un addio.

Lascio questa città con la precisa sensazione di doverle qualcosa, ogni volta. Certo che mi piacciono le sfide più grosse di me: ho scelto, praticamente last minute, l'unica destinazione sulla mappa d'Europa che mi facesse provare qualcosa. A me.

Già. A me.
A tratti ho pensato davvero si trattasse di un passo molto più grande di quanto potessi permettermi. No, il fatto che avessi le bolle ai piedi dopo due ore non c'entra. Ho pianto molto più di quanto avrei previsto. Sono scappata da un parco solo perché un ragazzo ha cominciato a suonare i Queen e ho pianto ancora ascoltando Adele in ostello. No, neanche mi piace Adele. Figuratevi quando hanno messo Nothing else matters.

Vorrei ricordarmi questo, però. Ché a fare i conti con i rimpianti che ho sparpagliato tra il Passeig e la Parallel ci vuole davvero tanto più coraggio di quello che ho. Ci vuole un coraggio enorme a dire alla Martina di sedici anni che no, non mi sono trasferita in un posto solo perché aveva una luce che non somigliava a nessun'altra e no, non ho studiato arte né architettura. Ci vuole un coraggio enorme a dire alla Martina del 2016 che avrei potuto portarla in salvo, se solo fossi stata un po' meno forte. Un po' più capace di chiedere aiuto.

Ci vuole un orgoglio che non riesco a soffocare, però, a dire a tutte quelle versioni di me che una cosa non l'ho tradita. L'ho persa, poi mi ci sono aggrappata forte, l'ho ripresa, mi ci sono fatta male, mi ci sono confrontata. Mi sono messa in discussione. Ma non l'ho tradita.
A Barcellona, in un momento in cui tutto poteva crollare e per una fortuna immensa ha deciso di non farlo – oh, com'ero felice, se ci penso! Ricordo ancora quella sangria e quei sorrisi e quanto, quanto eravamo piccoli, piccoli da accarezzare le foto se solo fossi forte abbastanza da guardarle – ho ricordato tracce di una storia che avevo provato più di una volta a rendere reale. Solo che non ho mai creduto abbastanza in qualcosa da portarlo fino alla fine, prima che TS fosse TS. C'era una stanza di un albergo in una traversa del Passeig, un albergo come tanti davanti a cui sono passata senza riconoscerlo, una stanza fatta di luce artificiale e del silenzio rarefatto dei posti che si svegliano più tardi di te, in cui mi è venuto in mente il primo momento in cui mi sono detta "ecco cosa potrei fare per sempre nella vita senza stancarmi mai. Ecco cosa vorrei fare".
Facevo la quinta elementare in un mondo dove voleva dire ancora dare un esame. Facevo la quinta elementare e per la prima volta, per prepararci allo scritto, ci hanno fatto continuare poche righe già date. Lo ricordo ancora, quell'incipit, così come ricordo il primo nome di quella che poi sarebbe diventata la mia Charlotte. E ricordo me che tenevo la penna in mano e non mi capacitavo né di quanto fosse facile, né che si potesse voler fare altro.

La vita mi ha portato altrove – no, davanti a Barcellona non posso raccontarmi palle. Ho lasciato che mi portassero altrove. Ho lasciato che mi convincessero che crederci è da illusi e che con le lettere non si campa. Ho lasciato che scegliessero per me una dieci cento volte, che poi diventa davvero quasi più abitudine, e quando ho detto no, di contro, mi sono ritrovata a Barcellona.

Ironico, eh?
Non c'era altro posto sulla mappa, dopotutto...
Eppure quella storia senza genitori (o con genitori veramente troppo ingombranti) c'era sempre. È cambiata, ha assorbito canzoni degli Skid Row e citazioni da Supernatural e tutto quello che pian piano ho imparato cedendo il muro. Imparando a dire "ho scritto una cosa". Non un libro. Magari una storia. Poi tre. Poi sto scrivendo ancora, perché scrivere è soprattutto riscrivere e io ho imparato a crederci un sacco, a piangere sui refusi e poi a studiare studiare studiare e minare io stessa la mia storia, cercando un compromesso tra personaggi che decidono autonomamente e cosa significa davvero scrivere.

Quindi sì. Mi fa paura, perché sono accartocciata dai rimpianti che ho risentito tutti in questi giorni. Ma mi piacerebbe ricordare, domani e per sempre, che nel momento in cui ero più a pezzi in assoluto ho riempito un Eastpak e per una settimana ho vissuto col cuore più pesante del bagaglio, che conteneva un buon campionario delle mie paure (maschera e boccaglio compresi, dov'è il mio premio "valigia minimal dell'anno"?) e sono tornata nel posto che mi ha ricordato chi sono quando tutto può cadere a pezzi.
E a pezzi ci sono caduta, ma ho anche frantumato la mia storia per l'ennesima volta nella speranza che vada da qualche parte. E voglio ricordarmi che mi sentivo intera quando Barcellona diventava Detroit e io bevevo Horchada e vino rosso fino a mezzanotte, il cielo cambiava sopra di me oltre gli abbaini dell'ostello e la musica diventava quasi benzina. Sale per le ferite.
Non ho fatto fatica a richiudere lo zaino, oggi. Ci stava tutto. Anche se c'era, in più, una storia minata e ricostruita. Anche se c'erano tutti i rimpianti. Anche se so che non può essere che un arrivederci.
Mi piace pensare che tornerò a dirglielo.

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