La casa sul lago, D. J. Poissant
La casa sul lago – David James Poissant
NN Editore – Traduzione di G. Guerzoni
29/22 – Luglio
Mentre leggevo le ultime pagine pensavo alla vecchia casa in montagna: alla polvere, a come si può rendere indolore un trasloco o a quanto si possa essere spietati con gli scatoloni. E poi ho pensato di avere in mano un libro che riesce a sapere di gelato, di acqua dolciastra e di disinfettante, di colori a olio e minestra di pollo senza sembrare stucchevole neanche per un attimo. A coltivare il senso di tragedia, la rabbia del non detto, l’eterna domanda – si somigliano davvero, le famiglie? Se la distinzione fosse oltre Tolstoj, oltre felici/infelici, non avremmo forse un’idea di cosa cerchiamo quando leggiamo? – risparmiando in gola il retrogusto del sangue o del vino scadente.
“La casa sul lago” è una traduzione inesatta. E la nota finale ci spiega perché, nella sua inesattezza, sia perfetta. “Lake life”, nella semplicità dell’inglese, è lineare, no? la vita – e la morte – intorno a un luogo senza il quale non ci sarebbe storia. Potrei dire che, sì, la nota di Guerzoni chiama in casa un substrato culturale italico (etrusco-romano) e che quindi la sua è un’operazione colta. Probabile. Ma non è solo questo. Senza la casa non ci sarebbero coordinate per le porte chiuse, per gli scatoloni perduti, per il borsone con le tele e il terrore di non dipingere mai più. Immaginare le pareti spoglie coi buchi dei chiodi e la mappa delle foto che hai già tolto sarebbe impossibile se non si parlasse di un immobile, che un po’ per deformazione professionale un po’ per qualcosa di molto più inafferrabile è la materializzazione perfetta di tutto ciò che ci àncora e ci vincola. Ci libra e ci rovina. Difficile non essere sentimentali quando si tratta di immobili, perché al di là delle ipoteche e dell’utilità marginale, ci sarà sempre qualcuno a vantare (che parola orrenda, vantare: l'italiano mi ha già perso tutti i punti guadagnati) un diritto di prelazione emotiva sancito da arrivi e partenze, ma soprattutto da ritorni: un quadro mai dipinto perché già dipinto, come se l’unico stimolo stesse nella novità, nel fremito del quasi, e non nel modo in cui la luce ferisce un pontile.
È casa per chi ci torna più spesso, o forse per chi sente di più lo strappo quando se ne va? Per chi ci nasconde i peggiori segreti o per chi sa esattamente cosa ci ha lasciato? È casa per chi torna lì per piangere? Per chi ci fa l'amore? È casa se non hai altro posto o se ci torni pur potendo andare ovunque nel mondo? Dove inizia e dove finisce casa per me? Dove inizia per te?
Perche mai dovremmo leggere un libro su una quasi fine? Ci piacciono le tragedie, no? Quelle vere, non quelle mancate, a meno che non si tratti delle proprie. Poissant scommette sulla ricetta opposta: raccontare la famiglia (e farlo bene) vuol dire parlare di cose crudeli, persino un po' banali – “è così che funzionano le famiglie: l’insignificante elevato a imperativo” – senza ritrovarsi a essere crudeli o banali. E no, ovviamente senza edulcorare nulla. Il vino scadente fa davvero schifo. Il gelato, invece, chissà perché non è mai malaccio. Almeno quando lo riscopri da adulto: essere irragionevole e quasitragico, quasifinito, per me ha molto a che fare con il capriccio ritrovato di nutrirsi a gelato e superalcolici.
Non esattamente una ricetta medica, ma è così che curerei un cuore spezzato. Acqua, gelato e superalcolici. Punti di sutura per salvataggi mancati. Senso di colpa in monoporzione.
Magari pure una sigaretta o due anche se non hai mai fumato, per provare il brivido di iniziare a distruggerti e dare alla tua tragedia, finalmente, i contorni di tragedia.
Perché siamo tremendi, siamo contraddittori, ma siamo vivi. Perché ci lasciamo rovinare dall’amore, noi e i nostri progetti: mettiamo in mano ad altri la promessa della felicità. Firmiamo contratti per farci spezzare il cuore. L’amore, l’amore, l’amore, per cui vale la pena rovinare se stessi. E la vita non restituisce e non rimette a posto nulla: non l'infanzia e nemmeno l'ispirazione. La vita se ne frega dei riscatti. La vita detta i tempi. Nessun altro dovrebbe avere il diritto di scandirli per noi, se non noi stessi. Tanto, comunque, il miglior sabotaggio è l'autosabotaggio.
Paralisi dell’analisi, pensa a un certo punto Thad. Forse non è paralisi, forse la quasi fine è solo un momento – forse l’ultimo – in cui sei integro. Perduti, amati, dispersi, prima che calino gli artigli. Forse è questo: respirare nel buio prima di disatricolarsi, per amore o per forza.
Forse smetteremmo di leggere di famiglie (e di immobili, e di fini) se capissimo che qualcuno lo fa per consolarci. Se le trovassimo davvero tutte uguali. Se pensassimo per felicità/infelicità e non ci rendessimo conto che si può costruire un libro intero sulla sospensione del quasi. Che di interessante come l’irrisolto forse davvero non c’è niente.
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