Gita al Faro, Virginia Woolf

Gita al Faro – Virginia Woolf
Edizioni Einaudi – Traduzione di Anna Nadotti
38/22 – Giugno


Gita al Faro è uno di quei titoli cui ti accosti con timore reverenziale, credendo necessitino di un apparato critico, di una conoscenza accademica o di una sensibilità particolare. Le uniche istruzioni per l'uso che mi sento di dare, però, sono semplicissime: prendilo con la serietà di un bambino e lascialo – lasciati – respirare.

Sarà la musicalità del concatenarsi delle parole, sarà il ritmo delle frasi – avvolgersi e svolgersi come cresta d’onda, una “forza precisa” che non mira a sopraffare la realtà ma solo a raccoglierla, rigonfiarla, scaraventarla o appoggiarla dolcemente sulla battigia. Sarà che c’è proprio una corrente, un vibrare interno. Come se un colpo d’aria improvviso potesse direzionare ampi banchi di pensieri raccolti tra parentesi, – anni interi – come l’errore intenzionale di lasciare aperte porte e finestre, di trasformare l’enigma della camera chiusa nello slow motion dell’abbandono e del tempo. Frammentare il momentum, interrompere la stasi, con un'unica linea inseguita per anni dietro l’illusione della bellezza e dell’arte.


È un’impressione. Una piuma che cade. Un modo per dire vita rimani qui. Affiorare come di insospettabile poesia che subito si inabissa, l’incoerenza delle cose vive, la loro perseveranza a consumare, a rovinare.

È un libro che si lascia leggere a patto di abbandonarsi alla corrente, di essere un po’ vaghi e di non fissarsi ai punti cardinali, alle lettere dell’alfabeto. È un libro che chiede abbandono: alle onde, alla notte, al mare, ma soprattutto al tempo e alla distanza. Per questo ha bisogno di respirare: una finestra è un quadro che si lascia spettinare, ancora nudo, senza cornice. Un fremito, una lama nell’aria: il faro è una promessa, ma anche una verità che chiede distanza. La sua luce non investe, ma sfiora – svela e rivela, danza in ombre azzurrine, come spianare qualcosa che le era stato dato anni prima ripiegato.


Mi fa pensare all’immobilità delle cose. A quanto sono minuscole viste da lontano. A un orizzonte che si stonda in risposta alle nostre illusioni. A dove vanno a finire le promesse che ti hanno infranto da bambino. A dove si annida il segreto che distingue l’opaco rifugio della reiterazione dal moto ondoso che ti fa venire voglia di essere avventato, di cercare sino ad annegare.

A tutti i posti che, per ogni bambino che ci portiamo dietro, sono stati il faro.

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