It, Stephen King

It – Stephen King
Edizioni Pickwick – trad. Tullio Dobner
66/21 – Ottobre

Questo viene da un pomeriggio di asfalto, irripetibile come la promessa di un posto a cui tornare. E poi viene da tutte le cose che ti aspettano nel buio, anche se le chiudi in un armadio.

A chi si ritrova in queste parole. E a chi ci si perde: se lo sentite vostro, probabilmente avete ragione.

“Se si desidera tornare sui propri passi e rincorrere la propria infanzia, bisogna mettercela tutta, spolmonarsi in uno slancio sfrenato di muscoli e volontà.”

È una corsa a perdifiato.
Perdi il respiro, perdi le paure, perdi i freni. Soprattutto i freni. Azzardi una discesa folle, e da adulto sai che rincorrere richiede più fiato, e soprattutto più incoscienza, che essere rincorso. E poi, ancora, hai bisogno di ricordare come farti di nuovo piccolo abbastanza da lanciarti a rotta di collo. Non aiuta per niente trovarsi in un’America piccola piccola, perché non è il piccolo giusto.

È un’America vigliacca, omofoba. Razzista. Incapace di farsi piccola quando conterebbe davvero. E allora devi costruire una casa sull’albero, un rifugio sottoterra, un posto dove amministrare rischio, fuga, coraggio. Un posto cui appartenere, e che, se hai la fortuna di condividere – fosse anche lo stesso gradino in infiniti pomeriggi di sole – ci consente di riconoscerci simili. Qualcosa come i cenni dei fari tra chi guida di mestiere, che hanno qualcosa in comune con il linguaggio segreto dei ragazzini soli.
(“Sii valoroso. Sii coraggioso. Resisti.”)

In posti così piccoli, ogni fessura è voragine, ed è così facile – oh, così facile – per ciò che ci terrorizza, infilarsi in una crepa e tornare.

“L’energia che si scialacqua con tanta profusione da ragazzi, l’energia che si ritiene non debba mai esaurirsi, si dilegua fra i diciotto e i ventiquattro anni per essere sostituita da qualcosa di assai più opaco, una sensazione fittizia come quella che ti dà una sniffata, aspirazione, forse, o traguardi o comunque voglia chiamarla un qualsiasi universitario rampante. Niente di sconvolgente. Non se ne va tutta d’un colpo, con un grande scoppio. E forse è proprio questo l’aspetto più inquietante, pensa adesso. Non si smette di essere piccoli tutt’a un tratto, con una grande esplosione, come uno di quei palloncini pubblicitari con gli slogan. Il bambino che hai dentro cola fuori, trapela come aria da una foratura in una gomma. E un giorno ti guardi allo specchio e ti trovi a faccia a faccia con un adulto. Puoi continuare a portare i jeans, puoi continuare ad andare ai concerti di Springsteen e Seger, ti puoi tingere i capelli, ma la faccia che c’è nello specchio è lo stesso quella di un adulto. Ed è successo tutto mentre dormivi, forse, come la visita della fatina dei denti.”

Ci sono porte che durante l’infanzia sono naturalmente spalancate e che una corrente fredda fa chiudere con l’età. Senza che ce ne accorgiamo. Sta a noi decidere se lasciare le cose come stanno o fare lo sforzo di riaprirla. Essere un adulto diverso, anche solo per un pomeriggio – sono sempre convinta che una delle prove più tremende di It abbia luogo in un ospedale davanti a una banale frattura, come complice un adulto qualsiasi, un farmacista che un giorno ha deciso di fare più della sua parte.

Ma io non sono King, quindi per leggere questa cosa è necessario prenderne un po’ misure. Reimparare. Andare all’indietro. Rimettere le rotelle alla bici (e poi levarle e scaraventarsi giù da una discesa, ma sto già correndo troppo). È necessario partire da lontano, da sotto, di lato, per raccontare una storia di questo genere, a una velocità tanto lenta da essere inarrestabile. È necessario, appunto, ritornare. Nel posto dove conserviamo ciò che vorremmo rimuovere, nel modo trasversale e inconsapevole in cui emerge e che gli altri intravedono, anche se non lo sanno interpretare.

“Se mi spingi al nocciolo della questione mi ci imprigioni”.

Scrivere è necessità, è – in una di quelle metafore fisiche che sembrano sbriciolare le ossa – l’equivalente mentale della lacrimazione degli occhi. Non è una cosa carina. Brucia e gonfia e se potessimo le resisteremmo, forse.
La scrittura non è una macchina graziosa, un espediente sofisticato. La scrittura è inarrestabile, irresistibile. Anche cattiva. Taumaturgica e tormentosa – to haunt – nella sua ostinazione a riportarti a quel “trauma madre” di tutto ciò che scriviamo, anche quando non ce ne rendiamo conto, quando si nasconde e lo seppelliamo. A questa madre mostruosa di tutti gli incubi conviene dimenticare, e noi dimentichiamo, pur portandocelo scritto dentro e fuori. Fa più paura il mostro – o l’idea di condividere uno scopo?

Per essere un ricordo, un fatto deve proiettare un’ombra. Ed è per questo che si scrivono le storie: per dar loro consistenza, per esorcizzare – scriviamo storie nell’ombra e sull’ombra. Ma il terrore non è né la fine né il fine. Il terrore è lo strumento, e come tutte le armi si ritorce contro il carnefice, dando finalmente a sette solitudini diverse un terreno comune, fiducia, una voce.

La voce, ormai ne sono convinta, conta quanto e forse anche più della storia. La voce ne è il corpo, è lei a dare consistenza agli incubi, è lei a sussurrare non sei solo. È tutta questione di intuito, una tecnica negata agli adulti – a cui, se va bene, resta da scriverne.

Ci sono voci e Voci, si rincorrono, si intrecciano, si sovrappongono senza che per il lettore sia di ostacolo – e un po’ fa sorridere perché proprio King, grande teorico della scrittura, conosce le regole così bene da farne quello che vuole, un po’ toglie il fiato perché sulla pagina ricrea la sensazione precisa dei ragazzini che si parlano sopra e si capiscono perfettamente, perché rispondono a un codice di gerarchie, bisogni e urgenze tutto loro. Un punto di rendez-vous. Tana libera tutti.
Cenni degli anabbaglianti sotto la pioggia, al buio.

“E sapeva che la vera solitudine era di un rosso sfocato: il colore dei fanalini di coda della macchina che hai davanti, specchiati sulla strada bagnata sotto la pioggia.” 

Le vicende dei Perdenti hanno un deragliamento personale – un fatale, irreversibile momentum – e un convergere collettivo. Così le loro paure sono spinte singolari, ma all’interno del cerchio, quando diventano comuni, si spalancano, diventano accessibili a tutti, sciogliendone i confini in una distorsione che non richiede giustificazioni. Condividere moltiplica, rifrange, scompone e ribalta. Tutto ciò che viene affrontato insieme, prima di diventare sormontabile, si complica. Ritornano adulti, alleggeriti o appesantiti, irrisolti. Ritornano sterili, quasi non potessero liberare davvero il bambino che sono stati in una forma nuova – una pagina bianca, innocente e intera – prima di salvare il ragazzino che ha firmato una tregua solo momentanea.

Eppure, a modo proprio, ognuno di loro è un creativo. Ci sono architetture mentali e mnemoniche che portiamo inconsapevolmente con noi – qualcosa meno di un paesaggio, qualcosa più di un talismano. È un vecchissimo retaggio che consente a Ben di essere rivoluzionario, è il ponte di vetro tra il rifugio dei bambini e il tempio custodito dalla ragionevolezza degli adulti. L’ultimo luogo luminoso e caldo prima della fine dell’infanzia. E si potrebbero dire tante cose sul ponte come archetipo e sul suo ruolo simbolico, sul suo essere cardine della fiaba e della chimera di dominare gli elementi – oppure anche solo immaginarci lì, piccoli e senza giacca mentre fuori infuria l’inverno del Maine e gli adulti sono tutti di fretta, e tu hai il tempo di guardare le luci danzare e il buio calare – out of the blue, into the black.
Non c’è magia – non c’è negli elementi, nel numero sette, nemmeno nei riti. C’è solo istinto, paura, ritorno. Eppure è una promessa siglata dal fuoco e dal sangue, e ancora dalla furia degli elementi, dal rovesciarsi delle calotte celesti e delle caverne ctonie, in quel punto senza tempo che sembra riassumerli tutti: la mappa falsamente rassicurante dei Barren, combinazione in precario equilibrio di aria, terra, acqua, fuoco e sangue. Beverly si fa custode e iniziatrice del fuoco, Mike fornisce il combustibile, in un essenziale rito di sopravvivenza, di difesa e di attacco ma, prima ancora, di ribellione. Se la vedi con gli occhi – dietro le lenti? – di un undicenne, il mito di Prometeo è una storia che porta in sé il germe dell’irrequietezza e della sfida, della possibilità di scardinare i mondi.

Le viscere della terra, le viscere del tempo. Le viscere attorcigliate dal terrore. Il posto dove smettono di avere senso le categorie degli adulti, persino le lettere maiuscole. Si vince solo se si è molto piccoli, o se si smette di pensare di essere tanto grandi per niente.

(salare la carne)

L’ombra di cui sono fatte le storie è roba nostra. E ti chiedi se ci siano scusanti per gli Henry Bowers – per i Tom? Sembra inconcepibile. Senza pretenderlo, senza clamore, la voce – il sangue – di Beverly, allevata da suo padre, perfezionata da suo marito, ci dicono calmi di no. Il male mostruoso, soprannaturale di It si annida e si nasconde, alimentandosene, nel male umanissimo e perfettamente mimetizzato di Henry e di Tom. E di Al. E, peggio ancora, di tutti i vicini che, dopo aver visto, richiudono le tendine. 

“(…) scovare il folle che ti abitava dentro guastandoti l’esistenza. Lo rincorrevi e lo incastravi in un angolo e lo acchiappavi. Ma non lo uccidevi (…) gli appioppavi una carezza e lo mettevi ad arare”.

Derry è più di un luogo, più di un ricordo comune. Persino più di un patto o una cicatrice. Derry è l’irrisolto, l’incompiutoDerry è il desiderio, l’anello che chiude il circolo tra il reale e l’agognato desire. Derry è il luogo dove è possibile trovare desiderio nel conforto e conforto nel desiderio. Uno stato di grazia cristallino.
Come si può imparare ad amare la luce sostando nel freddo e nel buio.

Forse è per questo che It ti si infila dentro così in profondità: non serve aver conosciuto l'orrore. Non serve avere familiarità con esso. Prima che una storia di paura, It è una storia di paure, e soprattutto di ritorni. Impalcabili e dolcissimi. Perché persino una vita in cui il giorno non finisce mai, dove un Boeing ti consente di inseguire un eterno tramonto, non ti porta davvero lontano dal blu.
E nemmeno dal nero.

“Il desiderio di andare veloce, di sentire il vento fischiarti intorno senza sapere se stai correndo verso qualcosa o scappando da qualcos'altro, il desiderio di andare e basta. Di volare.
Ansia e desiderio. Tutta la differenza fra l'essere un adulto che calcola i rischi o un bambino che ci monta sopra e va. Tutto il mondo che c'è in mezzo. E tuttavia non una grande differenza, in fondo. Compagni di letto. La sensazione che si prova quando il vagoncino delle montagne russe arriva in cima alla prima ripida salita e comincia veramente la corsa.
Ansia e desiderio. Ciò che si vuole e ciò che si ha paura di cercare di avere. Dove si è stati e dove si vuole andare. Qualcosa in una canzone rock a proposito dell'ambizione di avere una ragazza, l'automobile, un posto dove stare.”

Commenti

  1. Mi vergogno un po' per non averlo ancora mai letto. A King mi sono approcciata pianissimo, partendo da da un'opera semi sconosciuta da adolescente e passando per Carrie l'anno scorso. Non parto mai dall'opera più celebre di un autore, credo di temere di bruciarmi subito il meglio. Comunque, in questo tuo post così come in tante altre occasioni in cui hai accennato ad It traspare tutto il tuo trasporto per questa storia ed i suoi protagonisti. Spero tanto, quando lo prenderò in mano, di vivermelo con altrettanta passione. Sicuro non potrò non pensarti.

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    1. Carrie è un titolo fondamentale nella vita di Stephen King come scrittore: come sempre, sei di un acume raro. Mi piacerebbe, se mai provassi con It, sapere come la vivi. Sono molto curiosa.

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